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Nel mondo dello sport, si stima che il marketing porti un giro d’affari di 44 miliardi
Sport, spot e – qualche volta – flop. Una pioggia d’oro ha cambiato per sempre la vita (e il conto in banca) dei grandi atleti mondiali. Gli ingaggi, il sudore degli allenamenti e le vittorie sul campo, in piscina, in pista o sul ghiaccio questa volta non c’entrano. Globalizzazione, media e social network hanno trasformato i campioni in brand di se stessi. Spesso più redditizi della squadra o della nazionale per cui sono “datori d’opera”.
Sono transnazionali, giovani, belli. La miscela perfetta che ha fatto piovere sullo sport mondiale 44 miliardi di dollari di sponsorizzazioni lasciando la fetta più grande proprio ai big: i 100 super-atleti più pagati da Cr7 (al secolo Cristiano Ronaldo) a Lebron James, la stella dell’Nba, da Valentino Rossi a Gianluigi Buffon hanno messo assieme nel 2016 solo di sponsorizzazioni in proprio 887 milioni, quasi nove milioni a testa. Una cifra che in qualche caso supera persino lo stipendio che si guadagnano con la professione (calciatore, motociclista, portiere) stampata sulla carta d’identità. Spuntano negli spot tv, reclamizzano orologi sulle foto di Instagram, sfoggiano pantaloni griffati su Facebook, in un gioco di specchi milionario che in qualche caso – per gli atleti che hanno scelto il partner sbagliato o le aziende tradite dal loro “influencer” – è diventato un incubo.
Ultimo esempio la recidiva tennista Maria Sharapova. Osannata divina della terra rossa, magnete di sponsorizzazione milionarie (12,5 mlioni solo dalla Nike) scivolata sulla storiaccia del Meldonium, il farmaco che l’ha fatta finire nella rete dell’anti-doping.
Persi buona parte degli sponsor, la russa si è arrangiata andando a caccia di contratti minori. Questa volta però a scottarsi le dita è stata lei: un tribunale di Nuova Delhi l’ha incriminata per truffa legata al megacondominio “Ballett with Sharapova”, un progetto immobiliare vicino a Delhi sponsorizzato con la (bella) faccia di Maria ma mai finito, bruciando i risparmi di decine di famiglie. Gli incidenti di percorso, del resto, fanno parte del gioco. Ma il più delle volte valgono la candela, sia per chi paga che per chi incassa.
Prendiamo la stella più brillante degli spot sportivi, Cristiano Ronaldo. L’atleta più ricco del mondo che tra stipendio e sponsor incassa qualcosa come 88 milioni l’anno. Di cui 13 sborsati dalla Nike per promuovere i suoi prodotti. Soldi spesi bene, calcola Hookit, il termometro dei valori dei brand sui social network visto che Cr7 ha creato 500 milioni di valore per il marchio. La sua forza di fuoco del resto è impressionante: 122 milioni di fan su Facebook, 115 milioni su Instagram, 64 su Twitter dove surclassa Donald Trump – fermo solo a 41 milioni – e Papa Francesco che arranca in terza posizione a 15 milioni. Sono contatti che valgono oro speciamente perché il 47% degli utenti di Internet e tv in America usa ormai le tecnologie di blocco alla pubblicità per prevenire quella ufficiale. Barricate aggirate con facilità se il messaggio viaggia sui canali social dell’idolo di turno. Una foto pubblicata da Ronaldo sui suoi siti con un oggetto promozionale può valere così secondo le stime fino a 350mila euro. Cifre in continua evoluzione visto che il mercato degli influencer è destinato a raddoppiare per giro d’affari nel 2017. Le tariffe odierne sono comunque chiare: chi ha un milione di amici su Facebook può spuntare 80mila euro a foto pubblicata. Cifra che sale a 180mila a 7 milioni di amici. Su Youtube si può arrivare a 300mila euro per un filmato dato in pasto ai follower.
Nemmeno i grandissimi però sono esenti da scivoloni pubblicitari. Troppe carte da firmare, troppi soldi da incassare. A volte così capita di non far caso sulla reale identità di coloro ai quali prestiamo l’immagine. Lo stesso Ronaldo è finito nel mirino del web per essersi fatto sponsorizzare da Exness, un broker online di due russi con nazionalità cipriota che specula su strumenti finanziari molto pericolosi per i risparmiatori.
Il secondo sportivo più gettonato al mondo è Lebron James, il gigante buono dei Cleveland Cavaliers in Nba. A lui l’onnipresente Nike (che sponsorizza 48 dei primi testimonial più appetibili al monto) gira un assegno di 30 milioni l’anno circa. Poco meno guadagna Stephen Curry, folletto dei Golden State Warriors e fresco di gloria per il titolo. Lui è la prova provata di come i volti più noti dettino le condizioni alle aziende: ai suoi piedi ci sono le scarpe Under Armour, che lo pagano profumatamente per il disturbo. Curry però si può permettere di guidare la rivolta anti-Trump dei giocatori Nba malgrado il numero uno dell’azienda che lo ha sotto contratto sia uno dei più noti sostenitori di Donald. Under Armour però non ha battuto ciglio. I fenomeni, quando li si ha sotto contratto, vanno tenuti stretti, anche perché – come dimostra il trasferimento di Neymar al Psg – i fan del pianeta seguono ormai più il campione singolo che la squadra.
Gli unici italiani presenti nella classifica dei 100 sportivi più influenti al mondo sono Valentino Rossi e Gianluigi Buffon. Le loro quotazioni però scendono mano a mano che per i due si avvicina l’età della pensione, come è successo quest’anno a Usain Bolt e Kobe Bryant, spariti dal vertice della graduatoria.
La galleria dei flop degli spot raccoglie invece un bel po’ di grandi nomi andati in disgrazia all’improvviso bruciando un patrimonio di sponsorship inestimabile. Il caso più eclatante è stato quello del ciclista Lance Armstrong, trascinato nella polvere dall’ammissione di doping assieme a contratti pubblicitari non troppo lontani dai 100 milioni. Una ventina di milioni è il buco aperto nel conto in banca di Tiger Woods dal ritiro degli assegni di Accenture, At& t e Gatorade per gli scandali che hanno circondato la sua vita personale. Appena leniti dal fatto che in carriera ha guadagnato oltre un miliardo.
L’elenco dei testimonial sbagliati prosegue con i problemi di marijuana di Michael Phelps – qualche milione di danni collaterali sul fronte dei mancati spot – e poi con i 3 milioni persi da Oskar Pistorius, star paralimpica, per l’omicidio della fidanzata, e i 2,8 milioni ritirati dall’italiana Diadora a Ben Johnson, l’ex re di 100, dopo che è risultato positivo ai test anti-doping. La giostra però continua a girare dimenticandosi senza troppe cerimonie dei “caduti sul campo”. Capace, se serve, di perdonarli, come è successo a Phelps. Gli anni neri dopo il caso “canne” sono durati poco. I risultati hanno rialzato rapidamente le quotazioni dell’albatross e i cinque ori vinti nella piscina olimpica di Rio De Janeiro gli hanno regalato, tra un tweet mirato e un foto sponsorizzata di Instagram, una buonuscita pubblicitaria dorata prima della pensione.
Fonte: Affari & Finanza de la Repubblica
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