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Come è cambiato il lavoro

Matteo Valléro

Matteo Valléro

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Dopo la grande crisi, che cosa fare per trovarlo.

Erano 23 milioni nel 2008, sono 23 milioni nel 2018. Se ci si dovesse limitare alla lettura del numero complessivo degli occupati verrebbe da dire che il mercato del lavoro in Italia è rimasto immobile. In realtà su questi dieci anni potremmo tracciare una grande W, con i due estremi allineati: la grande crisi iniziata proprio nel 2008 ha cominciato a esaurire i suoi effetti nel 2017, e il mercato del lavoro ha subito un primo forte crollo nel 2009, un modesto recupero nel 2011, un nuovo crollo nel 2012/2013 e ora, finalmente, segnali positivi. In mezzo a tante turbolenze, alcune professioni sono sparite, altre si sono invece fatte avanti in un mercato sempre più avaro di opportunità soprattutto per i giovani (la disoccupazione degli under 25 è schizzata dal 21% al 35%, quella dei 25-30enni dall’11% al 21,4%), è cambiata la richiesta dei settori e anche il mix dei contratti.
Meno manifattura, più colf e badanti
Dalla radiografia dei settori, gli ultimi dieci anni hanno visto diminuire il peso dell’occupazione nelle attività manifatturiere (oltre 400mila lavoratori in meno), nelle costruzioni (500mila lavoratori “spariti”), nella pubblica amministrazione e nella difesa (200mila posti cancellati). Aumentano invece gli addetti negli alberghi e nella ristorazione (300mila occupati in più), nella sanità ed assistenza sociale (+100mila lavoratori) e la quota di colf e badanti. «Queste ultime figure – sottolinea Michele Pasqualotto, ricercatore del centro studi Datalavoro – sono quasi raddoppiate per peso sul totale dei lavoratori, raggiungendo il 3,3% nel 2017 con un aumento di oltre 350mila addetti».
I lavori che stanno scomparendo
A cambiare sono state anche le richieste delle aziende in termini di figure professionali. Alcune sono sulla via del declino. «Tutti i profili che non abbiano una specializzazione sono obsoleti e non più appetibili per il mondo del lavoro – segnalano dall’agenzia per il lavoro Articolo1 -. Operai non specializzati, impiegati generici, senza preparazione specifica, commessi che non conoscono lingue straniere sono tutti profili che non vengono più richiesti». L’avvento dell’e-commerce, e comunque di Internet ha cambiato radicalmente il panorama lavorativo. Gli agenti di viaggio, ad esempio, quasi non esistono più, al pari degli addetti alle ricerche di mercato: i viaggi ce li prenotiamo velocemente da soli sul web, i quesiti vengono posti online, il cellulare ci accompagna ovunque con le sue mille funzioni.
Secondo Page Group (a cui fanno capo le società specializzate nel recruiting di manager e alti profili Michael Page e Page Personnel) «tra le figure per cui si prevede un calo nelle richieste ci sono il direttore di filiale in ambito bancario e il tesoriere amministrativo. Anche il product manager ad interim è in calo rispetto al passato, in quanto le aziende stanno preferendo assunzioni a tempo indeterminato per questo genere di figure per garantire visibilità dei progetti a lungo termine».
I lavori più richiesti. E quelli introvabili
In valore assoluto se prima i più richiesti erano i commessi (10,7% delle assunzioni previste dalle imprese), ora la quota scende di circa 3 punti, portandoli al terzo posto, a vantaggio dei camerieri, necessari nell’8,9% delle posizioni (più del doppio, in termini relativi, di quanti se ne cercavano dieci anni fa). Oggi è forte anche la richiesta di cuochi (3,9% delle assunzioni) e di conduttori di mezzi pesanti e camion (3,5%).
«Interessante è anche rilevare – osserva Pasqualotto di Datalavoro – come siano cambiate le professioni difficili da reperire, specchio oltre che del cambiamento del modello economico anche del gap tra mondo della formazione e mondo del lavoro». Oggi tra le prime 5 professioni “introvabili” 3 sono attinenti al mondo Ict, due delle quali non erano previste 10 anni fa: si tratta dei tecnici programmatori (per quasi 6 su 10 si fatica a trovare la figura adatta, erano 3 su 10 nel 2008), gli analisti e progettisti di software (55% difficili, nel 2008 si parlava solo di semplici tecnici informatici) e i tecnici esperti in applicazioni (51% difficili da trovare, la figura non esisteva nel 2008).
Dal data scientist all’esperto di blockchain, le figure emergenti
Proprio quando si parla di professioni emergenti, c’è una parola che ricorre con insistenza: digitale. Le figure che stanno nascendo o potrebbero crescere di più nei prossimi anni, in Italia e all’estero, sono caratterizzate da una propensione naturale al Web e alle applicazioni che permettono di capitalizzare le informazioni online. In alcuni casi si tratta di una semplice riconversione di figure già esistenti: gli esperti di Web marketing si limitano a dispiegare in Rete le tecniche di fondo della disciplina. In altri, però, si assiste alla creazione di figure del tutto inedite, plasmate dall’industria per assecondare o potenziare le sue evoluzioni tecnologiche. Non si tratta proprio di un mercato di nicchia, se si considera che un’indagine della società di consulenza The European House Ambrosetti stima 135mila posizioni vacanti nell’Ict entro il 2020. E già oggi in Italia, secondo numeri Censis, la “macchina” del Web dà lavoro a 755mila persone, con un balzo di oltre il 12% negli ultimi sei anni.
Qualche esempio delle figure cercate? Data scientist, blockchain expert, chief digital expert. Alzi la mano chi avrebbe saputo definirle qualche anno fa, o magari anche oggi. Eppure sono alcuni dei ruoli elencati da società di risorse umane come Easy Hunters e Hunters Group quando si fa una stima sulle categorie che traineranno la domanda nel 2018. La più “vecchia” è il data scientist, un analista specializzato nell’estrarre informazioni dai dati online. Il blockchain expert è un professionista di formazione tecnico-scientifica che si occupa di scrivere protocolli per lo scambio di criptovalute, sfruttando la tecnologia (blockchain) che fa da registro contabile per le transazioni. Il chief digital officer si occupa del processo di «trasformazione digitale» delle aziende, ovvero il coordinamento delle attività per il rinnovamento tecnologico dell’impresa. La lista potrebbe continuare con il data protection officer (responsabile della protezione dati, introdotto dal regolamento generale 679/2016) e il chief internet of things officer (un manager che si occupa dell’utilizzo dell’internet of things in azienda), fino a ruoli già consolidati come analisti del business digitale, hardware engineer ed esperti di cybersecurity.

Merce preziosissima, questi ultimi, per un’industria terrorizzata dai danni di immagine ed economici innescati dalle intrusioni informatiche.
Oltre alla vocazione digitale, i cosiddetti lavori del futuro sono accomunati da un alto grado di qualifiche e retribuzioni che si avvicinano, o eguagliano, quelle dei manager. Sul fronte delle qualifiche, la formazione privilegiata è di natura tecnico-scientifica, ma non è detto che le professionalità innovative siano vincolate a una laurea in ingegneria, matematica o statistica. Anzi: sul mercato degli Stati Uniti, considerato come un benchmark globale, i giganti del Web manifestano interesse per laureati in discipline umanistiche, apprezzati per una duttilità di pensiero che si adatta alle frontiere del Web. La qualità del curriculum, d’altronde, si fa sentire anche sulle retribuzioni: lo stipendio medio offerto per le figure rilevate da Hunters Group è di 78.500 euro lordi l’anno, con picchi fino ai 120mila euro nel caso del chief digital officer. Serafino Negrelli, ordinario di Sociologia del lavoro alla Bicocca di Milano, spiega che si sta andando sempre più verso un «lavoro ad alto contenuto di conoscenza e creatività», polarizzato in maniera pesante fra ruoli elevati ed elementari. Secondo Eurostat, l’agenzia europea di statistiche, le attività lavorative «professionali, tecniche e scientifiche» hanno visto crescere la propria incidenza sul totale del lavoro Ue dal 7,6% del 1996 al 12,7% del 2016 (+5,3%). «L’Italia è già indietro su questo fronte – sospira Negrelli – Ma non possiamo permetterci di perdere troppo terreno rispetto all’Europa».

Come cambiano i contratti
Se si vanno a vedere più nel dettaglio le componenti dell’occupazione, si realizza come queste dinamiche abbiano effettivamente provocato dei cambiamenti nella struttura del mercato del lavoro nel nostro Paese. In primis, una diminuzione della quota di lavoratori indipendenti (oltre 500mila in meno in termini assoluti). Ma anche i lavoratori dipendenti sono cambiati: sebbene siano praticamente invariati in numero, quelli a tempo indeterminato “pesano” due punti percentuali in meno rispetto al 2008, per effetto dell’aumento di 400mila lavoratori a termine, che oggi sono il 15% dei dipendenti. «Tra questi ultimi – sottolinea Pasqualotto -diminuisce la durata media dei contratti, con il 78% che si conclude entro un anno dall’inizio dell’attività, il 6% in più rispetto al 2008”.
Per quanto riguarda l’orario lavorativo, in questi 10 anni è decisamente aumentata la quota di part-timer, passati dal 14,5% del 2008 al 19% di oggi (oltre 1 milione in più in termini assoluti). Più che di un risultato positivo dal punto di vista sociale (nel senso di andare incontro alle esigenze del lavoratori) proprio negli anni della crisi si è assistito ad un aumento del cosiddetto “part-time involontario”, frutto delle scelte aziendali di ridurre gli orari di lavoro in risposta alla contrazione della domanda per non ridurre l’organico aziendale.
«L’incapacità del nostro Paese di mettere in funzione un moderno sistema di politiche attive e di ricollocazione – commenta il giuslavorista Michele Tiraboschi – porta inevitabilmente a scaricare sul quadro regolatorio delle diverse tipologie contrattuali compiti impropri, nella nuova economia, di tutela del reddito e della continuità occupazionale. L’enfasi sul contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato frena ogni tentativo di rinnovamento del vecchio diritto del lavoro in nome di una stabilità che, superato l’articolo 18 dello Statuto, non è comunque più tale”.

La frontiera della gig economy
Fuori dal perimetro dei contratti tradizionali, però, sta crescendo un mondo che fatica a riconoscersi nei vecchi schemi. In inglese si chiama gig economy, in italiano “economia dei lavoretti”: l’economia dove i lavoratori svolgono prestazioni occasionali per conto di piattaforme online, specializzate nel mediare domanda e offerta di servizi. È il caso della californiana Uber per i trasporti o delle europee Foodora e Deliveroo nella consegne di cibo: portali che si limitano a mettere in contatto gli utenti con quello che desiderano (un passaggio in auto o la cena a domicilio), assegnando ai gig worker lo svolgimento effettivo del servizio (trasportare il cliente o consegnarli a casa un piatto di sushi). Il pagamento avviene a cottimo, con cifre che possono spingersi fino a 4 euro lordi a consegna. Sotto che forma sono inquadrati i cosiddetti giggers? La risposta più corretta è nessuna, perché il diritto del lavoro non è ancora riuscito a fissare dei paletti giuridici sul settore. In teoria il rapporto di lavoro è volontario, privo di vincoli di subordinazione e «serve ad arrotondare», come spiegano le aziende quando si difendono dalle accuse di opacità nel trattamento dei lavoratori. Di fatto negli ultimi mesi si sono susseguite proteste di fattorini e autisti reclutati dalle varie piattaforme, per il riconoscimento di tutele retributive e assicurative. E qualcosa si è mosso. Lo scorso autunno, il Tribunale del lavoro di Londra ha dato ragione a due conducenti di Uber che richiedevano lo status di dipendenti effettivi della piattaforma. Diversi siti di consegna di cibo stanno iniziando a riconoscere forme di copertura assicurativa ai propri riders, come vengono chiamati i fattorini, anche per ridurre il rischio di cause per infortunio. Nonostante l’estetica smart dell’economia digitale, i cosiddetti giggers sono infatti meno giovani di quanto si pensi (il 62% ha almeno 30 anni, secondo una ricerca Coop) e devono concentrare più servizi possibili per aumentare le entrate (il 65% guadagna al massimo 50 euro mensili). A livello giuridico, però, l’intero settore è incastrato in una sorta di zona grigia. «Gli schemi tradizionali del diritto del lavoro sono poco compatibili con i lavori della gig economy – spiega Giampiero Falasca, avvocato e partner dello studio Dla Piper – . Perché qui a distinzione tra lavoro subordinato (ancorato al tempo e al luogo della prestazione) e lavoro autonomo (vincolato alla realizzazione di un risultato) perde sempre più significato». In genere si fa notare che la proliferazione di gig workers si è accentuata con la crisi, “grazie” all’urgenza di molti lavoratori di integrare il proprio reddito con un’attività secondaria. Ma il boom del settore è figlio anche delle abitudini dei consumatori, non a caso indicati dalle piattaforme come cardine delle proprie scelte organizzative: «Sono gli stessi consumatori a chiedere che la pizza venga consegnata a casa in pochi minuti e per pochi euro – spiega Falasca – Il diritto del lavoro può sforzarsi di trovare soluzioni e schemi innovativi per inquadrare meglio i muovi lavori, ma non può cambiare questa tendenza di massa, che può essere frenata o modificata solo intervenendo sulle scelte dei“consumatori digitali”».

Cosa servirà in futuro, la ricetta dell’Ocse
«L’Italia che si appresta alla nuova tornata elettorale– commenta Stefano Scarpetta, direttore del dipartimento Lavoro e affari sociali all’Ocse – è a un bivio storico tra rilancio economico e sociale e rapido declino in un circolo vizioso di bassa produttività, bassi salari e limitate opportunità professionali dei lavoratori. Da un lato occorre senz’altro un intervento in profondità sulla domanda attraverso un rinnovato sforzo per promuovere l’investimento, l’innovazione e un mercato del lavoro fluido e che offra adeguata protezione ai lavoratori. Dall’altro lato, però senza uno sforzo massiccio nell’investimento in capitale umano è difficile immaginare l’Italia in un sentiero di crescita forte e sostenuto nel tempo». Secondo Scarpetta«c’è da augurarsi che al di la degli slogan elettorali qualunque sia il nuovo governo che uscirà dalle urne sia capace della lungimiranza necessaria a proseguire nel cammino di riforme, costruendo su quello che si è già messo in cantiere su un sentiero di coerenza e progresso; l’Italia ha la capacità di uscire dal basso equilibrio ma non può permettersi passi indietro e involuzioni populiste».

Fonte: Il Sole 24 Ore

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  • 8 Gennaio, 2018
Matteo Valléro

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