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I due big non hanno firmato la Carta di Bologna.
(Corriere della Sera) – Sfruttamento o libera scelta? È la domanda che ritorna quando si affronta il tema della gig economy, ovvero dei cosiddetti «lavoretti», più propriamente i lavori su richiesta, nei quali domanda e offerta si incontrano sulle piattaforme web. Un fenomeno che interessa tra 700 mila e 1 milione di lavoratori — come emerge dalle stime preliminari di una ricerca della Fondazione Debenedetti presentata al Festival dell’economia di Trento — ma che fatica a trovare il quadro giuridico di riferimento.
Tre giorni fa a Bologna un tentativo di normare l’attività dei rider è stato fatto: il Comune ha chiesto di firmare la carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano. Ma è stata sottoscritta solo da due piccole società di consegne, non dalle piattaforme più diffuse. «Un’iniziativa corretta» per il ceo di Foodora Italia Gianluca Cocco, che dal palco del Festival ha precisato che «se questa questione viene affrontata Comune per Comune si rischia una geopardizzazione che le aziende non riescono a gestire. Il tavolo deve essere a livello nazionale».
D’accordo anche il general manager Italy di Deliveroo, Matteo Sarzana, che ha ricordato come fin dall’avvio delle attività in Italia «ci siamo rapportati con il governo che, con giusto approccio, prima ha cercato di capire le differenze tra questo e altri lavori e poi ha deciso di non normare» i rider perché «già ci sono i tipi di contratto».
La gig economy però non è fatta solo di rider. È un fenomeno «recente» ha sottolineato il giuslavorista Pietro Ichino, ricordando che «nel 2014, quando si affrontava il Jobs act, il problema non era ancora stato messo a fuoco».
Secondo lo studio, l’identikit del gig worker italiano — gli immigrati sono solo il 3% — è quello di un uomo o una donna (circa 50% e 50%), di età compresa tra i 30 e i 50 anni, con un buon livello di istruzione (il 70%), che ha già un’occupazione e arrotonda lavorando da una a quattro ore a settimana. Solo per 150 mila, cioè lo 0,4% dell’intera popolazione attiva, si tratta dell’unico lavoro.
Quanto alle mansioni svolte, Paolo Naticchioni del centro studi dell’Inps, che ha realizzato la web-survey con Saverio Bombelli, ha spiegato che «per il 10% sono rider, cioè chi fa consegne (e di questi circa 10 mila consegnano cibo) mentre oltre il 70% dichiara di non avere bisogno di strumenti, come scooter o biciclette, se non della propria forza lavoro, come ad esempio le babysitter e tutto il mondo della crowd economy: chi mette a posto archivi di foto o file, traduce testi, monitora siti web per vedere se ci sono cose che non possono esserci». Il tipo di contratto più diffuso è la collaborazione occasionale con ritenuta d’acconto mentre per il 10% dei casi si tratta di cococo.
Il guadagno medio è sugli 839 euro lordi quando è il lavoro principale e scende a 343 euro quando è una seconda occupazione. Più del 50% viene pagato a compito, meno del 20% a ora. A colpire è che solo il 34% conosce la forma contrattuale che gli viene applicata, due lavoratori su tre non sanno cosa hanno firmato e a cosa hanno diritto. Per Marta Fana, ricercatrice a SciencesPo-Parigi, è una forma di «nuovo cottimo, vuol dire scaricare il costo del rischio d’impresa dal datore di lavoro al lavoratore».
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