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Esiste il rischio che l’amministrazione Trump sia disposta a darsi la zappa sui piedi per danneggiare il modello economico della Cina.
(Milano Finanza) – Le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina si intensificano, ma gli incentivi per un cambio di direzione sono forti. Quando a marzo i rapporti commerciali tra Washington e Pechino hanno cominciato a incrinarsi avevamo avvertito che gli sviluppi della situazione avrebbero probabilmente occupato le prime
pagine dei giornali per il resto dell’anno, anche se il loro influsso sul sentiment del mercato sarebbe stato limitato. “Avevamo raccomandato agli investitori di concentrarsi sui chiari segnali provenienti dalle maggiori banche centrali e di ignorare il rumore di fondo”, sottolineano il presidente e CIO Equities di Neuberger Berman, Joseph Amato, il CIO Fixed income, Brad Tank, e Ashok K. Bhatia, Senior Portfolio Manager, Multi-Sector Fixed Income.
“Come avevamo segnalato nelle prospettive della settimana scorsa, i mercati non sono ancora disposti a fidarsi dell’amministrazione Trump per quanto concerne i negoziati commerciali. I prossimi mesi, durante i quali rumore e preoccupazioni non potranno che aumentare, saranno di cruciale importanza per il clima di fiducia. È giunto il momento di chiarire per quale motivo restiamo del parere che le due potenze rivali cambieranno direzione all’ultimo momento per evitare le devastanti conseguenze di uno scontro frontale”, afferma il top management di Neuberger Berman.
Un gioco di ritorsione
Il 15 giugno gli Stati Uniti hanno annunciato l’imposizione di dazi fino al 25% su beni cinesi per un valore complessivo di 50 miliardi di dollari a partire dal 6 luglio. La misura, ventilata già da marzo, di per sé non comporta conseguenze particolarmente onerose. Infatti, secondo la maggior parte degli economisti le sue ripercussioni per l’economia americana e cinese si limiterebbero a un decimo di punto percentuale al massimo da sottrarre dai rispettivi pil.
Il teatro della battaglia si allarga
Fino a che punto potrebbe arrivare? Molto lontano, a quanto pare. Peter Navarro, consulente per il commercio della Casa Bianca, afferma che “la posta in gioco è molto più alta per la Cina che per noi” e che Pechino “potrebbe aver sottovalutato la determinazione del presidente Trump”. Queste dichiarazioni “sembrerebbero basarsi sul fatto che le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti ammontano a $ 500 miliardi, mentre quelle statunitensi verso la Cina soltanto a 130 miliardi di dollari, per questo Pechino finirà per restare priva di prodotti a cui applicare tariffe prima di Washington. Il che è vero, ma la Cina potrebbe facilmente allargare il teatro della battaglia”, continuano Joseph Amato, Brad Tank e Ashok K. Bhatia.
Le controllate e le joint-venture locali delle società americane realizzano ingenti ricavi in Cina, e secondo la maggior parte delle stime il loro fatturato complessivo supera 250 miliardi di dollari. L’arma più pericolosa della Cina in questa guerra commerciale non sono probabilmente i dazi, ma la possibilità di chiudere i negozi Apple , ad esempio, o di complicare in qualche altro modo la vita di queste società statunitensi, senza parlare della prospettiva di eventuali boicottaggi da parte dei consumatori cinesi o di iniziative di maggiore impatto sul vincolo di oscillazione tra la valuta cinese e quella statunitense o sulle riserve di Treasury detenute da Pechino.
Inoltre, anche se potrebbe essere vero che in una guerra commerciale la Cina rischia di subire le perdite maggiori, è altrettanto possibile che abbia una soglia del dolore più alta. Yi Gang, governatore della Banca Popolare Cinese, ha affermato di essere pronto a sostenere il mercato interno con “ogni tipo di strumento monetario” e che il Paese “è in grado di resistere a qualsiasi tipo di guerra commerciale”.
Gli Stati Uniti naturalmente beneficiano dello stimolo fiscale e bisogna ammettere che sinora la reazione dei mercati locali è stata limitata. Se le tensioni continuassero ad aumentare la Casa Bianca sarebbe disposta a esporsi al rischio di un ribasso del 10% od oltre dei listini prima delle elezioni di metà mandato, o di una graduale contrazione dei prezzi delle commodity agricole durante la stagione dei raccolti?
Un’inversione di rotta per salvare la faccia
Per questi motivi, entrambe le controparti hanno forti motivi per cambiare rotta e uscire da questo letale braccio di ferro con la dignità intatta. “L’incentivo è particolarmente forte per Trump, che in vista delle elezioni di novembre ha bisogno di corteggiare l’opinione pubblica con notizie positive. Secondo alcuni l’offerta iniziale di aumentare le importazioni di beni statunitensi non era soltanto troppo vaga, ma sarebbe arrivata troppo presto e senza sufficienti pressioni perché la Casa Bianca fosse disposta ad accettarla. Mancava insomma l’indispensabile patos di una sfida all’ultimo sangue. Quando il momento sarà più propizio, si dice, un’offerta analoga ma dettagliata in maniera più chiara e con meccanismi di applicazione più definiti porrà fine al braccio di ferro”, spiegano i tre esperti.
I mercati non escludono inoltre la possibilità che, una volta calmatesi le acque, i dazi globali scendano su livelli addirittura inferiori a quelli attuali. Ad esempio, la settimana scorsa alcune delle maggiori case automobilistiche tedesche hanno appoggiato la proposta di eliminare le tariffe commerciali del 10% sulle automobili statunitensi dirette verso l’Europa e del 2,5% su quelle europee esportate negli Stati Uniti.
“Per questi motivi, siamo sempre convinti che queste schermaglie siano soltanto un picco di volatilità a breve termine piuttosto che l’inizio di una fase con conseguenze molto più gravi. Esiste però un rischio concreto che l’amministrazione Trump sia veramente disposta a darsi la zappa sui piedi per danneggiare il modello economico della Cina. È anche possibile che nei quattro mesi che rimangono prima delle elezioni di metà mandato la situazione finisca per sfuggire di mano. Ciò nonostante, per il momento restiamo convinti che, malgrado le crescenti tensioni, i due avversari eviteranno lo scontro frontale”, conclude il top management di Neuberger Berman.
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