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La stretta del governo contro i contratti a termine viene presentata come win-win, ma rischia di avere costi pesanti, senza incentivare il ricorso alle forme di lavoro stabile
(La Repubblica) – Nel 1990 due economisti come Rudiger Dornbusch e Sebastian Edwards scrissero un profetico saggio che si intitolava “Macroeconomics of populism”. Le pagine passavano in rassegna le politiche economiche in molti paesi dell’America latina, dal Perù, al Cile, all’Argentina e indicavano delle costanti di comportamento che possono essere riassunte in tre fasi: fase uno, ci sono benefici apparenti; fase due, aumentano l’inflazione e il deficit e va in rosso la bilancia dei pagamenti; fase 3, arriva il Fondo monetario impone politiche di risanamento finanziario i cui effetti negativi ricadono proprio sui ceti che avevano sostenuto le politiche populiste.
Con efficacia, sulla voce.info, Fausto Panunzi che insegna alla Bocconi, ha riassunto il tratto distintivo delle politiche economiche populiste partendo dal saggio dei due economisti americani: si nega l’esistenza del fatto che le azioni di politica economica hanno costi e benifici e si prospettano ricette economiche che sembrano win-win, cioè con soli benefici e senza costi.A chi si può pensare? Ad esempio all’intervento sul mercato del lavoro intentato da Di Maio, con ampie perplessità della Lega, per smontare il Jobs act. In questo caso il beneficio apparente è la Waterloo del precariato, ma quali sono gli effetti e i costi?
Il primo effetto è un aumento del costo per i contratti a tempo determinato. Paradossalmente si è sparato contro questi contratti con tutte le armi a disposizione: penalizzazioni contributive crescenti (monetarie); reintroduzione delle causali e ampiamento dei tempi di ricorso (giudiziario-amministrative); riduzione della durata complessiva a 24 mesi e riduzione a 4 dei rinnovi (burocratiche). Si pensi, giusto per avere un parametro, che Marco Leonardi, economista, e già consigliere economico di Gentiloni a Palazzo Chigi, in un saggio di qualche tempo fa per l’Arel aveva avvertito che ci sono tre modi per limitare i contratti a termine e che “tutti e tre hanno i pro e i contro”. Il decreto li mette in campo tutti e tre facendo in modo che i questi rapporti di lavoro che oggi costano il 3,5-4,5 per cento in più di quelli a tempo determinato possa arrivare al 7 per cento.
Dunque il decreto viene presentato come win-win e invece ci sono dei costi: se questi aggravi supereranno una certa soglia, i 900 mila contratti a termine in scadenza ad agosto e il milione e 600 mila in scadenza a fine anno potrebbero essere ridotti di molto. Oppure entrare nel sommerso. Il tempo determinato, come accade in Italia, spesso maschera situazioni di vero e proprio precariato e sfruttamento, perché i contratti sono assai brevi e il turn over è alto. Ma bisogna anche considerare che la liberalizzazione dei contratti a tempo determinanto, in un momento di difficile uscita dalla crisi, ha reso possibile la creazione di circa 500 mila nuovi occupati con contributi regolari e ogni tipo di protezione. Certo la crescita cominciava ad essere eccessiva, ma si è sparato con il cannone ad una mosca.
C’è poi un altro costo da considerare. Nella logica dei costi e dei benefici. Il contratto a tempo indeterminato, che dovrebbe essere lo scopo ultimo del decreto “dignità” è stato reso più oneroso, appesantendo il costo per la risoluzione del rapporto da 24 a 36 mesi. Di conseguenza l’appesantimento degli oneri consiglia l’uscita dal determinato ma non incentiva ingresso nell’indeterminato. Così lo smontaggio del jobs act rischia di essere solo una vittoria della “Macroeconomics of populism” .[:]