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La svolta di Francoforte
Tra Natale e Capodanno il presidente di Carige, Pietro Modiano, e l’amministratore delegato, Fabio Innocenzi,
hanno tenuto aperto per otto giorni un negoziato riservato con gli esponenti della famiglia Malacalza. Sono gli azionisti di maggioranza dell’istituto ligure che il 22 dicembre, astenendosi, hanno fatto saltare l’aumento di capitale da 400 milioni, chiesto dalla Bce per rimborsare un prestito d’emergenza concesso a novembre da tutte le altre banche italiane (leggi qui, l’articolo sul commissariamento di Carige deciso dalla Bce).
Senza quel prestito — tecnicamente un bond subordinato sottoscritto dallo Schema Volontario del Fondo Interbancario (Fitd) — Carige non avrebbe avuto patrimonio sufficiente: pur essendo ricca di capitale primario (il CET1 è al 10,8% contro il 9,625% chiesto da Bce), la banca necessitava di almeno 320 milioni per coprire un buco causato da 257 milioni di perdite su crediti, emerso solo nella terza trimestrale. Ora la banca è solida come capitale, ma quel prestito va rimborsato. A questo scopo era stata convocata l’assemblea. Malacalza però si è astenuto (mentre gli altri soci pesanti, come gli imprenditori Raffaele Volpi e Aldo Spinelli, non si sono neanche presentati)
perché voleva prima più informazioni sul quel buco, sul nuovo piano industriale e sulle future richieste della Bce, per evitare ulteriori sorprese: l’ultimo aumento di Carige, da 550 milioni del dicembre 2017, è già evaporato e Malacalza, che in Carige ha investito 400 milioni in quattro anni, se ne ritrova adesso sì e no 25.
A novembre i rischi di una messa in risoluzione di Carige o di una liquidazione sono stati concreti: il sistema bancario avrebbe dovuto sborsare almeno 7 miliardi di euro per garantire tutti i depositi sotto i 100 mila euro, secondo quanto spiegato dagli stessi vertici della banca e del Fitd. L’alternativa di una ricapitalizzazione precauzionale stile Mps sarebbe costata almeno 1,3 miliardi di denaro pubblico, secondo fonti a conoscenza del dossier; sempre ammesso che la Commissione Ue l’avesse concessa. Ma con Popolare di Vicenza e Veneto Banca non è avvenuto. Inoltre c’era un problema prospettico: quanto sarebbe potuta andare avanti senza intaccare la fiducia dei depositanti una banca in stallo dal punto di vista della governance, con i vertici sfiduciati dal socio che li ha nominati appena tre mesi fa?
Di tutti questi rischi sono stati ben consapevoli in questi giorni il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il ministro dell’Economia, Giovanni Tria. Poco prima di Capodanno il premier ha avuto colloqui sia con i vertici della banca sia con la famiglia Malacalza (Vittorio Malacalza e i figli Mattia e Davide), preoccupato appunto di una possibile fuga dei clienti. E avrebbe messo in chiaro i punti fermi dell’esecutivo Lega-M5S: «Non vogliamo un’altra crisi bancaria e non metteremo un euro pubblico nelle banche».
Dunque bisognava arrivare a un compromesso. E a questo hanno lavorato negli ultimi otto giorni Innocenzi e Modiano. Ai Malacalza era stato presentato un calendario che li avrebbe fatti apparire vincitori: assemblea entro il 30 gennaio con la banca che si impegnava per iscritto a far partire l’aumento solo dopo aver fornito ai soci tutte le informazioni richieste; bilancio il 12 febbraio; piano industriale il 26 febbraio, a ispezione Bce già chiusa. Malacalza avrebbe dovuto impegnarsi a votare sì, senza per questo vincolarsi a sottoscrivere le nuove azioni. Ma la mancanza di fiducia, lo scarso tempo a disposizione e le tensioni dei giorni precedenti hanno fatto naufragare il negoziato.
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