
Nel nostro Paese fatturano ma poi parcheggiano i propri profitti dove le aliquote sono più convenienti
42 milioni di euro. A tanto (poco) ammonta la somma che i giganti del web hanno versato al fisco italiano nel 2019. Dopo che l’intervento della Procura ha costretto i big hi-tech a patteggiare arretrati per quasi un miliardo, il bottino dell’erario è cresciuto di parecchio rispetto agli 11 milioni complessivi raccolti nel 2016. Ma la cifra rimane comunque bassa ed il motivo è che i colossi tecnologici molto abilmente ma legalmente parcheggiano i propri profitti in Paesi dove le aliquote sono più convenienti. E così non deve affatto sorprende se Facebook paga imposte pari a un quarto di quelle della Fila, gloriosa azienda di matite piemontese o se l’assegno staccato da Google è inferiore a quello di La Doria (pelati).
L’eterno e irrisolto problema della corretta tassazione dei colossi digitali non è ovviamente solo una questione italiana. I tribunali in Francia, Germania e Gran Bretagna hanno provato a più riprese negli ultimi anni a imporre il rimborso degli arretrati, ottenendo solo successi parziali e provvisori.
La questione è oggi sul tavolo dell’Ocse che sta esaminando una soluzione sovranazionale che consenta di affrontare il problema, trovando un metodo per convincere questi giganti a pagare almeno parte delle imposte nei Paesi dove si generano fatturati e utili, eliminando le complesse triangolazioni che spostano la base imponibile nei paradisi a fiscalità ridotta.
La partita, ovviamente, è tutt’altro che semplice. Emmanuel Macron e Angela Merkel stanno così spingendo per varare dal 2021 una tassa digitale made in Europe ma Olanda, Irlanda e Lussemburgo, i paradisi offshore nella Ue, sono pronti a mettersi di traverso.
di: Maria Lucia PANUCCI
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