
Molti di questi rimarrebbero nel Mezzogiorno se ne avessero la possibilità per il minor costo della vita e la maggior possibilità di trovare abitazioni a basso costo
Sono 45 mila i lavoratori delle grandi aziende del Nord che dall’inizio della pandemia lavorano in smart working dal Sud. E’ quanto emerge da una indagine sul southworking, realizzata da Datamining per conto della Svimez su 150 grandi aziende con oltre 250 addetti, che operano nel Settentrione, in particolare nei settori manifatturiero e dei servizi. Il numero non è affatto esiguo se si considera che attualmente sono circa due milioni gli occupati meridionali che lavorano nel Centro-Nord. E se si tiene conto anche delle piccole e medie realtà, più difficili da rilevare, il fenomeno potrebbe aver riguardato circa 100 mila lavoratori meridionali durante il lockdown.
Questa modalità di lavoro è molto apprezzata perché consente alle persone di tornare a casa, con tutti i benefici che questo comporta. Oltre l’85% delle persone interessate dal fenomeno del southworking andrebbe o tornerebbe a vivere al Sud stabilmente se fosse loro consentito, al di là di questo periodo di grande emergenza. Tra i vantaggi che i lavoratori percepiscono di più ci sono il minor costo della vita, seguito dalla maggior possibilità di trovare abitazioni a basso costo. Per quanto riguarda gli svantaggi, spiccano i servizi sanitari e di trasporto di minor qualità, poca possibilità di far carriera e minore offerta di servizi per la famiglia.
Anche per le aziende che vedono i loro dipendenti fare smartworking nel Mezzogiorno ci sono vantaggi e svantaggi. Tra i primi ci sono la maggiore flessibilità negli orari di lavoro e la riduzione dei costi fissi delle sedi fisiche, tra i secondi la perdita di controllo sul dipendente da parte dell’azienda, il necessario investimento da fare a carico dell’azienda e i problemi di sicurezza informatica.
Per questo, per ridurre gli svantaggi, secondo SVIMEZ, ci sono alcune policy che potrebbero venire incontro alle richieste delle aziende: incentivi di tipo fiscale o contributivo per le imprese del Centro Nord che attivano southworking, riduzione dei contributi, credito di imposta una tantum per postazioni attivate, estensione della diminuzione dell’IRAP al Sud a chi utilizza lavoratori in southworking in percentuale sulle postazioni attivate, creazione di aree di coworking, promosse dalle pubbliche amministrazioni, vicine alle infrastrutture di trasporto come stazioni e aeroporti. «Il southworking potrebbe rivelarsi un’interessante opportunità per interrompere i processi di accumulazione di capitale umano qualificato iniziati da un ventennio (circa un milione di giovani ha lasciato il Mezzogiorno senza tornarci) e che stanno irreversibilmente compromettendo lo sviluppo delle aree meridionali e di tutte le zone periferiche del Paese», ha commentato Luca Bianchi, direttore SVIMEZ.
di: Maria Lucia PANUCCI
FOTO: ANSA
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