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Economia

Gli effetti della pandemia sulle industrie culturali e le risposte degli Stati europei

Alessia Malcaus
27 Marzo 2021
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Quello della cultura e dello spettacolo è uno dei settori più colpiti dall’emergenza sanitaria e dalla crisi economica, ma anche uno dei più ignorati dalle politiche statali Industrie culturali, quali […]

Quello della cultura e dello spettacolo è uno dei settori più colpiti dall’emergenza sanitaria e dalla crisi economica, ma anche uno dei più ignorati dalle politiche statali

Industrie culturali, quali sono state le politiche di sostegno messe in campo fino ad ora? Secondo quanto riportato da uno studio della Fondazione Centro Studi Doc, le attività legate a musei, cinema e teatri rappresentano almeno il 4,4% del pil dell’Ue, e in Italia creano occupazione per 1 milione di persone, esprimendo nel 2019 un valore aggiunto di 60 miliardi pari al 3,4% del pil.

Le attività più colpite dalla crisi economica globale in termini percentuali sono il settore musicale, in perdita del 76%, e le arti dello spettacolo, che segnano un -90%. D’altro canto, il fatturato delle industrie dei videogiochi ha visto un aumento del 9%. A preoccupare, al di là dei dati oggettivi di pil e occupazione, è l’impatto che questi settori – o la loro perdita – hanno sulla salute psichica dei gruppi umani. Contestualmente alla privazione di tali spazi di accesso a diverse forme culturali, nonché a luoghi di socializzazione, emerge, infatti, una crisi sanitaria legata alla salute mentale.

Da tenere a mente, inoltre, come sottolineato dal The Economist, come le misure anti contagio abbiano rimosso dalla quotidianità piccoli gesti, quali strette di mano e abbracci, con notevoli impatti negativi sullo stato emotivo della popolazione.

Per far sì che l’industria culturale possa ancora svolgere la sua funzione psico-sociale, la risposta traversale all’impossibilità di presenziare concerti o spettacoli, o ancora di poter visitare mostre, è stata quella di un’accelerazione verso la completa digitalizzazione culturale. L’Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo (Oea) di Strasburgo ha raccolto da marzo 2020 tutte le misure adottate, Stato per Stato, ma anche a livello europeo, per sostenere il settore. Osservando solo gli aumenti dei finanziamenti pubblici, questi hanno riguardato in larga parte l’industria cinematografica, i media di informazione di reti pubbliche, e, in generale, i gruppi di distribuzione dell’audio-visivo. Ciò rende sempre più probabile la convergenza e concentrazione delle industrie culturali verso la fusione dell’ente distributore con l’ente produttore. In questo senso, va ricordato quando a marzo 2020 YouTube, Netflix e Amazon Prime furono obbligate a ridurre la qualità video per non mettere troppa pressione alla banda larga europea, data l’inflazione dell’utenza.

Si rendono, quindi, necessarie politiche culturali serie, in termini di finanziamento, ma anche nell’accesso agli eventi, a livello statale o europeo per evitare tale tendenza verso la costituzione di cartelli audio-visuali di produzione culturale. Ciò implicherebbe infatti, oltre al monopolio economico, una concentrazione delle funzioni di produzione-distribuzione nello stesso ente stravolgendo i processi creativi e di produzione artistica formattandoli al medium di distribuzione.

Tornando alle principali misure adottate a sostegno delle industrie culturali in Europa, stando a quanto riportato dall’Oea, l’Italia in questi primi mesi del 2021 è stato uno dei pochissimi Paesi ad essere intervenuto in questo settore, stanziando 640 milioni all’industria del cinema e della televisione. Tuttavia, propria la situazione italiana rappresenterebbe l’incapacità generale nel proporre una seria e decisiva politica culturale. Il consumo culturale del 2020, secondo i resi pubblici lo scorso 18 febbraio dalla SIAE, ha subito una contrazione di 4 miliardi di euro. «Complessivamente» – ha commentato Angelo Zaccone Teodosi su Key4Biz – «gli eventi di spettacolo sono diminuiti del 69,3 %, gli ingressi hanno segnato un calo del 72,9 %, la spesa al botteghino è scesa del 77,6 % mentre la spesa del pubblico ha avuto una riduzione dell’82,2 %».

Una delle prime azioni intraprese dal governo allo scoppio della pandemia era stata, infatti, quella di chiudere tutti i luoghi ritenuti non essenziali, tra i quali le sale da concerto, i teatri, i cinema e i musei. Questa scelta, approvata dal Comitato Tecnico Scientifico, aveva scatenato un grande numero di proteste, soprattutto in occasione della successiva ondata autunnale e della conseguente richiusura delle sale. «I teatri non sono come negozi di abbigliamento» – ha spiegato Valeria Arzenton, imprenditrice nel marketing culturale, in un’intervista a Open, – «non basta alzare la saracinesca per tornare a fatturare. Gli spettacoli vanno preparati con settimane, mesi di anticipo. C’è un lavoro di promozione che adesso è diventato ancora più complicato: bisogna convincere il pubblico del fatto che i teatri sono un luogo sicuro».

Nessuna riflessione, inoltre, è stata fatta sulle strategie da adottare non appena la crisi sarà terminata. In particolare, andrebbe compreso in quale direzione vada l’interesse e la fruizione culturale e in che modo il processo estremo di digitalizzazione stia cambiando radicalmente il concetto stesso di cultura. 

I primi interventi, risalenti a marzo 2020, hanno riguardato soprattutto benefici fiscali e dilazioni o proroghe. Successivamente, a partire da maggio, col decreto Rilancio, il governo ha inaugurato una serie di sussidi straordinari volti a risarcire parzialmente le ingenti perdite del settore. Tra i problemi mai esaminati dalle forze politiche, tuttavia, c’è quello del lavoro in nero che coinvolge una buona parte dei lavoratori dello spettacolo. Oltre ai contributi non versati, gli operatori del settore hanno dovuto fare i conti anche con un altro requisito richiesto: aver svolto la prestazione lavorativa per almeno 30 giornate tra il 1° gennaio 2019 e il 29 ottobre 2020 nell’ambito di uno o più contratti.

Per quanto riguarda, invece, la Francia, France Culture ha evidenziato un atteggiamento di strano ottimismo nei confronti della progressiva digitalizzazione della cultura. Infatti, gli interventi statali sono andati già da subito proprio in questa direzione: dalle iniziative dell’Opéra di Parigi, alla sinergia del Ministro dell’Educazione Nazionale, France Culture, Arte e Radio France nel realizzare programmi di intrattenimento culturale per i più giovani, sino alle agevolazioni al Centre National du Cinéma per la diffusione di film in streaming.

Inoltre, la creazione ad hoc della Delegazione generale per la trasmissione, i territori e la democrazia culturale ha manifestato la volontà di accompagnare anche a livello territoriale la transizione verso le nuove piattaforme, fornendo supporto logistico, prolungando così localmente l’azione, altrimenti centralizzata, del ministero.

In Germania Angela Merkel ha espresso pubblicamente e in diverse occasioni come la pandemia abbia colpito la vita culturale del Paese. Quello tedesco è stato sicuramente il piano di sostegno all’industria culturale più ambizioso: il Neustart Kultur ha, infatti, mobilitato nel 2020 fino a 1 miliardo di euro e 2 miliardi nel 2021 per mantenere le attività e le infrastrutture culturali. Tra le intenzioni del ministro delle finanze tedesco c’è anche quella di creare due nuovi fondi: uno per pagare dei bonus a organizzatori di piccoli eventi culturali (fino alle poche centinaia di persone), affinché siano redditizi anche con il distanziamento sociale, e un altro per provvedere assicurazioni per gli eventi più grandi (fino alle diverse migliaia di partecipanti) per mitigare il rischio di possibili cancellazioni. Tuttavia nemmeno la Germania è stata immune alle polemiche.

Alla base di queste probabilmente si trova l’identificazione fuorviante tra il settore degli eventi e quello dell’intrattenimento. Da una parte l’offerta di servizi alle aziende, quali l’organizzazione di congressi, esposizioni di prodotti, fiere, compongono fino l’88% dei profitti, fino ad un totale di 130 miliardi, occupando fino ad 1,5 milioni di persone affermandosi come il sesto settore economico della Germania. Dall’altra parte, l’84% delle quasi 30 mila imprese del settore non hanno ancora ricevuto i sussidi per il mese di dicembre, mentre il 40% neanche quelli di novembre.

Unico spiraglio di luce sembrerebbero essere le misure adottate dalla Spagna. La differenza principale sta nel fatto che le limitazioni alle attività culturali sono state, fin da subito, rese variabili sulla base del livello di rischio. Nell’ambito musicale, la politica spagnola ha dimostrato tramite uno studio come nelle sale da concerto il rischio di esposizione sia minimo. Per questa ragione, stagioni importanti come quella all’Auditorium Nacional di Madrid hanno potuto mantenersi ed essere frequentate dal pubblico. Tuttavia va tenuta a mente la differenza tra le grandi istituzioni quale l’Auditorium National e i piccoli locali indipendenti che offrono musica dal vivo, che restano colpiti come quelli degli altri Paesi.

In conclusione, nessun Paese europeo sembra esprimere una vera e propria politica culturale capace di promuovere la propria ricchezza culturale e contemporaneamente l’importante funzione psicosociale svolta dal settore al di là della crisi pandemica. Nessuno, inoltre, sembra porsi la questione della modalità di fruizione di opere d’arte plastiche o musicali sia sul pubblico che sul processo stesso di produzione, punti fondamentali da cui partire per l’articolazione delle future politiche culturali.

di: Alessia MALCAUS

FOTO: ANSA

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