
Naufragate le trattative con Unicredit, per la banca simbolo di Siena rimangono solo due opzioni: una proroga dall’Ue oppure un nuovo acquirente, ma alla svelta
Gli occhi di tutta l’Europa sono puntati in questi giorni su Monte dei Paschi di Siena, a causa del fallimento delle trattative con Unicredit, arrivato dopo più di un anno di negoziato (ne abbiamo parlato qui).
Quella di Monte dei Paschi è una storia fatta di crisi e salvataggi, tre negli ultimi 10 anni, iniziata nel 2007 quando la banca rilevò Antonveneta per 10,3 miliardi di euro dall’istituto spagnolo Banco de Santander.
Santander era una realtà fortemente problematica e quello che doveva essere l’affare dell’anno si trasformò nella scintilla dell’incendio che avrebbe distrutto la reputazione della banca più antica del mondo.
Nel 2008, un anno dopo l’acquisto, Bankitalia cominciò l’analisi dei titoli Fresh, ovvero degli strumenti finanziari che erano stati usati per accompagnare l’aumento di capitale necessario a rilevare Antonveneta. La prima ispezione venne avviata nel 2010 e a Mps venne chiesto un aumento di capitale. Nell’ottobre dello stesso anno la banca venne posta sotto “commissariamento dolce” con una richiesta di aggiornamenti quotidiani sulla liquidità.
Nel 2011 a luglio la Fondazione Mps siglò l’aumento di capitale da due miliardi ma quello stesso anno venne travolta dalla tempesta dei debiti sovrani: a settembre arrivò la seconda ispezione di Bankitalia che a ottobre chiese la discontinuità della governance. I risultati del controllo furono così catastrofici che la Procura di Siena nel 2012 aprì un’inchiesta sul caso Antonveneta.
Intanto il debito con le banche che avevano finanziato l’acquisto raggiunse la vetta del miliardo e Monte dei Paschi chiuse il bilancio 2011 con un buco da 4,69 miliardi. Arrivarono le dimissioni di Giuseppe Mussari dalla presidenza e al suo posto venne nominato Alessandro Profumo.
Nel 2015 scattò un nuovo aumento di capitale, fino a tre miliardi, e il Tesoro divenne azionista del Monte dei Paschi come pagamento degli interessi pari a 243 milioni di euro per i Monti bond acquistati dalla banca nel secondo tentativo di salvataggio (il primo erano stati i Tremonti bond nel 2009). A luglio 2016 Mps non riuscì a reggere lo stress test dell’Autorità bancaria europea e risultò essere la peggiore delle 51 banche in Europa.
A fine 2016 il Governo varò il decreto Salvabanche: vennero messi a disposizione 20 miliardi di euro, 5,4 dei quali destinati al salvataggio di Mps. L’anno dopo lo Stato entrò nel capitale della banca senese, con il benestare di Bruxelles che concesse tempo fino a fine 2021 per lasciare l’azionariato.
Il primo anno di risanamento si chiuse con un rosso di 3,5 miliardi mentre nel 2018 si registrò un utile di 279 milioni. Nel 2019 il Tribunale di Milano condannò l’ex numero uno Mussari a 7 anni e 6 mesi per le operazioni legate all’acquisizione di Antonveneta.
Nel 2020 vennero venduti 8,1 miliardi di debiti deteriorati ad Amco e venne approvato un piano strategico con l’obiettivo di far fronte alla carenza di capitale e ai costi di ristrutturazione necessari per rimediare al dissesto economico, per un totale compreso tra i due e i 2,5 miliardi di euro.
Nel frattempo iniziarono le trattative con Unicredit.
Si trattava di negoziati complessi soprattutto per via dei paletti che erano stati imposti fin dal principio. Le trattative erano iniziate sotto la guida dell’ex amministratore delegato Jean Pierre Mustier, che non aveva mai nascosto la propria riluttanza all’acquisto, ed erano riprese sotto Andrea Orcel che a luglio le aveva approvate formalmente. Ma Unicredit aveva chiarito immediatamente di non volersi far carico dei crediti deteriorati di Mps e di non aver intenzione di rimetterci propri capitali. Lo Stato perciò avrebbe dovuto impegnarsi a coprire qualsiasi problema di credito derivante dall’operazione, anche se fosse comparso successivamente alla conclusione delle trattative.
Secondo quanto si è appreso ad oggi, il motivo del fallimento dell’operazione è da ricercare nella richiesta da parte di Unicredit di un aumento del capitale di Mps prima della conclusione della vendita. In base agli accordi, lo Stato italiano avrebbe dovuto immettere nuovo capitale nella banca per riassestarne la situazione economica. Il ministero avrebbe però imposto come offerta massima circa cinque miliardi di euro, comprensivi di oneri dovuti a crediti deteriorati e all’esubero di circa 7 mila dipendenti, mentre Unicredit avrebbe chiesto più di 7 miliardi, due in meno di quanto ipotizzato a inizio trattative.
L’impossibilità manifesta di incontrarsi a metà strada ha portato a una rottura definitiva delle trattative. Adesso, allo Stato italiano restano solo due opzioni: chiedere una proroga alla Commissione europea per cercare un nuovo investitore, oppure trovarne uno entro la scadenza del 31 dicembre.
La situazione resta comunque molto complicata: anche se la proroga dovesse arrivare sarebbe probabilmente limitata a circa un semestre, molto poco per riuscire a concludere un negoziato con un nuovo investitore partendo da zero.
È possibile che si faccia avanti una nuova banca al posto di Unicredit e per un po’ si è vociferato di Banco Bpm (leggi qui), ma dalla banca hanno smentito l’interesse e al momento non sembrano esserci altri potenziali acquirenti disposti ad accettare meno dei 7 miliardi negati a Unicredit dallo Stato.
Ma c’è un altro problema da considerare, che ha condizionato la storia stessa del Monte dei Paschi fin dalla sua fondazione e adesso ne ostacola la ripresa: il legame a doppio filo con la politica.
Mps è stata controllata dai partiti per decenni, compreso il periodo in cui le azioni erano possedute dalla Fondazione Monte dei Paschi, istituzione semi-privata i cui vertici erano nominati dai rappresentanti della politica locale, il sindaco di Siena, il presidente della provincia e quello della Toscana. È stata per anni l’unica banca italiana in cui il controllo completo era in mano alla Fondazione. Il risultato di questo controllo politico fu che ogni sorta di attività in provincia venne finanziata con il denaro della banca e in molti casi vennero concessi prestiti o altri favori a importanti personaggi amici o alleati, che spesso non avevano modo di saldare il debito.
Persino negli ultimi mesi durante la trattativa con Unicredit la politica ha giocato un ruolo fondamentale: i partiti di centrodestra hanno accusato a più riprese il Governo di aver concesso condizioni troppo favorevoli a Unicredit. Lega e Fratelli d’Italia in particolar modo si sono scagliati contro il Partito Democratico sostenendo ci fossero evidenti conflitti di interesse: nelle trattative, infatti, da una parte era coinvolto l’ex ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che dal 2018 al 2020 è stato deputato del Pd e successivamente è entrato nel consiglio di amministrazione di Unicredit; dall’altra però era coinvolto il segretario attuale del Pd Enrico Letta, che si è candidato e in seguito è stato eletto al seggio di Siena, sede di Monte dei Paschi.
Rimane da capire cosa succederà adesso, quanta pazienza dimostrerà Bruxelles e come si comporterà Mario Draghi: la politica italiana ha già dimostrato di non potersi permettere di lasciar fallire la banca, ma le opzioni scarseggiano e il tempo sta scadendo.
di: Micaela FERRARO
FOTO: ANSA/FABIO MUZZI
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