Intervista con il giornalista Lorenzo Munegato che, a quattro mani con il regista Simone Aloisio, ha firmato per The Skill Group un documentario sul nuovo scenario del lavoro nel nostro Paese
Un viaggio ideale che racconta l’Italia del fare, del sacrificio, della fatica ma anche delle soddisfazioni e della crescita professionale e personale. Un resoconto di approfondimento giornalistico che, per bocca dei protagonisti, spiega i profondi mutamenti del mondo del lavoro negli ultimi anni e di come certi mestieri, un tempo meno di tendenza, abbiano riacquistato importanza, fascino, centralità e, soprattutto, siano straordinariamente richiesti dal mercato.
È “Il buon lavoro che c’è”, l’ultima fatica a quattro mani del regista Simone Aloisio e del giornalista Lorenzo Munegato per The Skill Group, presentato alla 79ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Reduce dalla trasferta lagunare, Munegato ci racconta il contesto in cui nasce il docufilm.
«Fino a pochi anni fa il nostro Paese era tra quelli con minore mobilità dal punto di vista lavorativo, il Covid ha rimesso in circolo le energie, modificando almeno in parte l’approccio al lavoro e invertendo la tendenza. Il cortometraggio mostra così come sia nuove professionalità sia antichi mestieri si rivelino concrete opportunità di impiego».
Che tipo di testimonianze troviamo in “Il buon lavoro che c’è”? Sono soprattutto giovani o anche persone che avevano già una carriera?
«Guardi, c’è veramente di tutto: dagli agronomi di Timac Agro Italia, che assistono i coltivatori nella nutrizione delle piante, ai tecnici di Bonifiche Ferraresi che si occupano di agricoltura di precisione e, tra gli altri, di progetti speciali sul biodiesel in Africa. Dai produttori di vino della Tenuta Santa Caterina nel Monferrato alle giovani che, uscite da Accademia delle Professioni, sono riuscite a costruirsi una vita professionale nel settore dell’accoglienza turistica e nel mondo gastronomico».
Si è riconosciuto in queste testimonianze? Qual è stata quella che l’ha emozionata di più?
«Sì, il percorso è anche un po’ mio. Ho iniziato la professione sbobinando nastri in una televisione e solo dopo un anno ho potuto scrivere il mio primo pezzo. Poi, nel corso degli anni, ho fatto dei cambiamenti nel mio profilo professionale: per migliorare la mia carriera ma anche me stesso. Questo l’ho ritrovato anche in queste persone. Mi sono emozionato davanti all’infermiera del Bergamasco che sognava di assistere gli ammalati da quando una sua futura collega l’aveva accudita durante un ricovero da ragazzina. E mi sono riconosciuto nella ragazza che ha mollato il suo impiego fisso per produrre gelato (nella foto). Voleva essere felice lavorando. Questo non solo commuove, ma stimola e accende passione».
Ci ha fatto incuriosire! Passata la prima veneziana, dove possiamo vede il docufilm?
«Faremo una serie di presentazioni nei capoluoghi (ndr Padova, Milano e Roma, intanto) e poi useremo molto la diffusione on line, sul web e sui social. Perché il cinema è affascinante e prestigioso, ma, come i nostri protagonisti, bisogna camminare anche nel presente e nel futuro!»