
La nuova tendenza viene incontro alla crisi, ma danneggia il pianeta
Il nuovo trend dei grandi affari sposta il pubblico sui social. Dalla pandemia infatti si sono moltiplicati siti e piattaforme che offrono shopping ‘smart’: veloce, a prezzi popolari e di ampissima scelta. La nuova tendenza sta conquistando intere generazioni, in testa la Gen Z e i giovani adulti; a certificarlo è un report di Wgsn, global company di trend forecasting incrociati con le valutazioni in chiave ‘data science’.
A coadiuvare la nuova tendenza anche la crisi che attanaglia molti paesi e riduce il portafoglio in particolare dei più giovani, che si trovano spesso con un budget di spesa inferiore. Da qui la scelta di molti di rivolgersi a grandi siti di e-commerce, o le iniziative di diversi web entrepreneur di organizzare campagne sconti, giveaway e promozioni sempre più al ribasso. La campagna commerciale più nota del globo, il Black Friday, arriverà tra l’altro tra poche settimane. “L’opportunità di acquistare un vestito nuovo per uscire a cena e farlo velocemente con consegna rapida a casa, può essere di grande sollievo dalle pressioni quotidiane della vita per intere fasce di popolazione”, commentano gli analisti. Cresce anche l’attenzione per i prezzi stracciati di capi che comunque sono tagliati secondo le ultime sfilate dei brand del lusso: un modo per appagare il proprio bisogno di accettazione sociale sfoggiando un abito che rimandi ai grandi marchi, ma che non dissangui le già malridotte finanze.
Una tentazione allettante, sia sotto il profilo sociale che sul piano economico, soprattutto per chi a causa della crisi post pandemica ha perso in larga parte la propria capacità di fare acquisti consapevoli per i più diversi motivi: licenziamento, disoccupazione, stipendi più bassi. C’è però una contropartita molto grave: l’impatto devastante che la fast fashion ha sul pianeta (quindi sulla salute, quindi sullo sviluppo e infine sui diritti di lavoratrici e lavoratori). Contro ogni principio di solidarietà sociale e di rispetto per l’ecosistema il fenomeno negli Stati Uniti ha generato un balzo di transazioni del 65% nell’ultimo anno, a fronte di un più timido incremento del 38% delle transazioni online per le catene di negozi al dettaglio. Ma questo genera una pressione altissima sull’ambiente, sia in termine di risorse usate sia in termini di inquinamento: la fast fashion è infatti la quarta industria responsabile per inquinamento, soprattutto delle falde acquifere. Si prenda ad esempio un paio di jeans: secondo uno studio di Abn-Amro, il costo sociale minimo per la produzione di un paio di pantaloni in denim è di circa 30 euro. Eppure su internet si trovano offerte ben più allettanti, la cui spiegazione è una sola: i costi vengono ridistribuiti tagliando fondi lungo la filiera; in primis, sugli stipendi dei produttori e sui controlli dell’inquinamento.
La soluzione? Non sembra essere colpevolizzare il cliente: “Siamo di fronte ad un fenomeno globale che si consolida creando un nuovo ultra-valore che fa i conti con estese fette di consumatori più parsimoniosi – spiega il rapporto di Wgsn- e che, di fronte ad un incremento dei prezzi palpabile e in salita guardano a nuove priorità di spesa puntando all’essenziale am con un occhio alla moda“. La soluzione può essere allora il second-hand e vintage, un fenomeno che rientra nell’economia circolare: allungando l’utilizzo degli abiti ‘pre-loved’ si promuove così un consumo più etico e green.