
Riciclare i componenti presenti in un cellulare permette di risparmiare tempo, soldi e, soprattutto eviterebbe ulteriore inquinamento
Si chiama urban mining ed è un modo per riuscire a ricavare metalli e materie prime dal riciclo degli oggetti di uso comune. Un problema non indifferente dal momento che le proiezioni parlano di un aumento dei rifiuti urbani, entro il 2050, del 70% (cifre tratte dal report What a Waste 2.0: A Global Snapshot of Solid Waste Management to 2050). Non solo, ma è bene ricordare che proprio i rifiuti tecnologici (e l’Italia è quella che in Europa ne ricicla di meno con il 39,4% contro una media europea del 46,8%) sono quelli più problematici da smaltire e potenzialmente più inquinanti.
Infatti nei cellulari, secondo quanto calcolato da E-waste Lab di Remedia, in collaborazione con il Politecnico di Milano, si trovano, in media, qualcosa come 9 grammi di rame, 11 grammi di ferro, 250 milligrammi di argento, 24 milligrammi di oro, 9 milligrammi di palladio, 65 grammi di plastica, 1 grammo di terre rare.
Senza contare, poi, il problema della batteria con 3,5 grammi di cobalto e 1 grammo di terre rare.
Riutilizzare questi materiali permetterebbe un enorme risparmio di tempo, soldi e, soprattutto eviterebbe ulteriore inquinamento. In questo modo la filiera del riuso risulta essere più breve ed è possibile reinserire i materiali nei cicli produttivi.
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