
La solitudine professionale, definita come ”la carenza relazionale percepita nel luogo di lavoro”, si traduce in sintomi di ansia, depressione, burnout e riduzione della motivazione
Otto professionisti su dieci hanno sperimentato la solitudine sul luogo di lavoro. La ricerca condotta dall’Osservatorio della content factory di Bip, multinazionale di consulenza, in collaborazione con il Centro di eccellenza Human Capital guidato da Alessia Canfarini, ha esaminato il fenomeno della solitudine professionale attraverso un campione di 355 persone di varie seniority e competenze.
La solitudine professionale, definita come ”la carenza relazionale percepita nel luogo di lavoro”, si traduce in sintomi di ansia, depressione, burnout e riduzione della motivazione.
È un sentimento vissuto soprattutto da coloro che hanno appena iniziato il proprio percorso professionale o che si trovano nel mid-level (tra i 3 e i 5 anni di esperienza). In queste fasce di seniority la percezione di solitudine risulta essere rispettivamente del 39% e del 30% e va diradandosi con il proseguimento della carriera.
All’origine di tale fenomeno, secondo l’opinione degli intervistati, vi è la cultura aziendale (25%) e i rapporti – sia col proprio team (30%) che con i propri responsabili (22%) – che si creano in un contesto aziendale. La percezione del lavoro da remoto (40%) è indicata come la causa principale della solitudine professionale mentre il lavoro ibrido (5%), risulta essere la modalità meno impattante.
Il fenomeno della solitudine professionale influisce sulle organizzazioni creando, innanzitutto, disagio psicologico ed emotivo che, secondo una ricerca de Il Sole 24 Ore, porta a periodi di assenza per malattia quantificati in 42 giorni l’anno e ad un calo di produttività che oscilla tra il 50% e il 70%.
Al disagio psicologico si affianca l’insoddisfazione: nel 2022 il Censis ha evidenziato che otto italiani su dieci sentono di meritare di più sul lavoro.
Emerge infine l’effetto legato alla riduzione del coinvolgimento da parte delle persone, situazione che spesso contribuisce a fenomeni come il quite quitting.
Al momento le reazioni delle organizzazioni lasciano ben sperare: temi come l’inclusione e l’equità sono entrati negli interventi dei ceo con una frequenza del 658% dal 2018, anche se al momento l’accesso a strumenti di wellbeing psicologico, fisico e finanziario è stato possibile solo per il 40% delle persone.
Quest’ultimo dato lascia dunque spazio di manovra alle organizzazioni, chiamate ad abbandonare adesioni sommarie su macrotemi di wellbeing e ad abbracciare invece l’idea di un supporto attivo nel life design di ogni persona. ”Dal punto di vista delle organizzazioni il benessere delle persone sul lavoro è un tema sempre più rilevante e direttamente connesso con il livello di qualità delle relazioni”, dichiara Alessia Canfarini, partner e responsabile del centro di eccellenza di Bip Human Capital. “Per guidare il cambiamento è necessario abilitare, contemporaneamente, cinque aree del wellbeing: connettere, fare, imparare, nutrire e disseminare”, conclude.
(foto SHUTTERSTOCK)