
Le elezioni negli Stati si avvicinano ma il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca non è da escludere. E con lui anche un cambio della politica con tutte le possibili conseguenze sull’economia. Ma se vincesse il nuovo Joe Biden? Abbiamo chiesto ad Alessandro Bergonzi, Financial Markets Content Specialist di Investing.com di fare un quadro ampio e chiaro della situazione
L’economia statunitense sembra essere in gran forma nonostante le misure drastiche della Federal Reserve sui tassi di interesse. Quali sono i motivi alla base di questo quadro?
«I tassi d’interesse non hanno provocato una recessione perché alla politica monetaria restrittiva attuata dalla Federal Reserve si è affiancata una politica di bilancio espansiva promossa dal governo degli Stati Uniti. Molte aziende, poi, avevano approfittato dei tassi d’interesse nulli per finanziarsi e ripartire dopo il Covid. Inoltre, gli Usa sono entrati nella pandemia con un’economia in crescita e i consumatori americani possiedono ancora una parte dei risparmi accumulati durante le restrizioni, con i quali hanno trainato il pil nel 2023»
Le elezioni negli States si avvicinano ma il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca non è da escludere. Quali potrebbero essere le conseguenze di una sua vittoria a livello economico e geopolitico?
«La sfera economica e geopolitica si intrecceranno, come avvenuto nel corso della scorsa presidenza Trump e come è naturale che sia per gli Stati Uniti. Dal punto di vista interno Trump punterà sulla produzione e sull’autosufficienza energetica. È ipotizzabile un piano di sussidi all’industria, caratterizzato da misure protezionistiche e dall’abbandono della lotta al cambiamento climatico. Sul piano geopolitico, invece, potremmo assistere un disimpegno militare degli Usa, soprattutto in Ucraina, e a un rilancio delle guerre commerciali. Anche il rapporto con l’Unione europea e gli altri membri Nato è destinato a cambiare. Più volte Trump ha chiamato i partner dell’alleanza a prendersi le proprie responsabilità e probabilmente Bruxelles verrà lasciata sola nella lotta contro Mosca. Nel caso in cui Trump vincesse le elezioni, sarà anche interessante vedere come si comporterà in Medio Oriente. Durante lo scorso mandato è proprio lì che il tycoon ha preso le decisioni più importanti in politica estera, tra lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme e gli accordi di Abramo».
Con la rielezione di Trump è possibile ipotizzare un ritorno della guerra commerciale con la Cina? E quali sarebbero le conseguenze in un quadro, come quello attuale, che vede Pechino e Mosca strettamente alleate?
«Nel suo primo mandato Trump non è stato certo morbido con la Cina e appena insediato ha subito riacceso le tensioni su Taiwan. Ma Biden ha proseguito sulla stessa linea e oggi sia repubblicani che democratici concordano sulla minaccia cinese. Quindi, chiunque vinca, è difficile immaginare una distensione nei rapporti Cina-Stati Uniti. Probabilmente, però, con Trump alla Casa Bianca potremmo assistere a un cambio di retorica. Se per Biden il pericolo numero uno per le democrazie occidentali è Putin, il Repubblicano si concentrerà sulla necessità di contrastare l’export cinese per proteggere l’economia americana».
Per l’economia, una seconda amministrazione Trump potrebbe comportare una nuova riacutizzazione dell’inflazione anche alla luce delle dichiarazioni dello stesso tycoon che ha già sottolineato di non voler confermare Jerome Powell alla guida della Fed?
«Trump sicuramente predilige politiche espansive, tuttavia non si può contemporaneamente aumentare sia l’offerta di moneta che la spesa pubblica senza causare un aumento dei prezzi. E in ogni caso, soprattutto con una stretta monetaria ancora in corso, una nuova fiammata inflattiva non sarebbe una buona notizia per nessuno».
Secondo i sondaggi quelle di novembre saranno elezioni al fotofinish: se, come detto, Trump potrebbe tornare alla Casa Bianca non è da escludere una rielezione di Biden. In questo caso quali potrebbero essere le conseguenze geopolitiche ed economiche per gli USA?
«Fino ad ora la “Bidenomics” è stata incentrata su investimenti pubblici nell’industria e nelle infrastrutture e rafforzamento dei salari. Politiche che hanno spinto il pil degli Usa ma che hanno provocato anche l’inflazione contro cui sta lottando la Federal Reserve. Il difficile potrebbe arrivare proprio in caso di rielezione, perché Biden si dovrebbe confrontare con un’economia fisiologicamente rallentata dalla stretta monetaria e tassi di finanziamento più elevati per famiglie e imprese. Sul piano internazionale vale lo stesso discorso. Da un lato, sempre meno persone e forze politiche sono convinte dell’opportunità di sostenere l’Ucraina visto che la Russia non molla presa e in questi giorni sta anche avanzando. Dall’altro la situazione in Medio Oriente sta creando non pochi imbarazzi ai democratici che sono divisi tra la storica vicinanza a Israele e i malumori per l’operazione su Gaza».
Il Congresso è dilaniato da lotte interne per la questione del tetto del debito e per il problema dell’immigrazione, direttamente collegato con i fondi per l’Ucraina. Alla luce di questi indizi è possibile fare un riassunto della situazione?
«La questione Ucraina e la politica estera in generale è uno dei campi su cui democratici e conservatori sono maggiormente divisi. Per evitare lo shutdown Biden ha già dovuto sacrificare parte dei fondi promessi a Zelensky, cedendo alle pressioni dei repubblicani che spingono per destinare quelle risorse al controllo del confine con il Messico. Ma il presidente deve fare i conti anche con altre pressioni. Da un lato l’opinione pubblica, che sta perdendo interesse nei confronti della causa di Kiev ed è sempre più preoccupata dal livello dei tassi di interesse. Dall’altro il debito pubblico, che ha raggiunto i 34 mila miliardi di dollari (oltre un terzo del debito mondiale complessivo) con il rapporto debito/pil al 125%.».
Un livello così elevato – conclude Bergonzi – lega le mani al governo, obbligandolo a dover costantemente rinegoziare il tetto al debito per evitare il default, e mette gli Stati Uniti di fronte allo storico dilemma tra interventismo e disimpegno.
FOTO:SHUTTERSTOCK