
Quasi una 1 donna su 5 lascia la propria occupazione dopo la nascita di un figlio perché per molte lavorare “non conviene”. Vediamo perché e come si può intervenire con Valentina Cardinali, responsabile struttura mercato del lavoro Inapp
Molte donne oggigiorno rinunciano alla maternità perché hanno paura che sia troppo faticoso gestire il lavoro ed i figli e non vogliono trovarsi di fronte ad una scelta, senza contare che allevare un bambino ha dei costi elevati che non tutti possono permettersi. Non deve quindi sorprendere se, secondo i dati Istat 2022, in Italia la natalità è crollata con 393 mila nati, 7 mila in meno rispetto al 2021 (-1,7%) e ben 183 mila in meno (-31,8%) rispetto al 2008. E per coloro che invece scelgono di mettere al mondo una nuova vita il problema nasce quando finisce la maternità perché è allora che si tratta di scegliere come andare avanti e come rientrare al lavoro. La triste realtà è che a molte donne non “conviene” rientrare dopo la nascita di un figlio. Valentina Cardinali, responsabile struttura mercato del lavoro Inapp, ci ha spiegato perché il reddito che viene sacrificato nella famiglia è quello della donna e come bisogna intervenire per risolvere un problema annoso…
Le dimissioni delle lavoratrici mamme sono più che raddoppiate in 10 anni e gli ultimi dati del 2022 non rincuorano affatto. Perché questo accade?
«La situazione delle madri lavoratrici in Italia da decenni è alquanto preoccupante. Nel nostro Paese, in cui le donne sono mediamente il 40% del totale della popolazione occupata, la maternità continua a rappresentare la prima causa di fuoriuscita dal mercato del lavoro. I più recenti dati del “Rapporto Plus 2022 Comprendere la complessità del lavoro”, che raccoglie i risultati dell’indagine Inapp-Plus condotta su un campione di 45.000 individui dai 18 ai 74 anni, evidenziano come dopo la nascita di un figlio quasi 1 donna su 5 (18%) tra i 18 e i 49 anni smette di lavorare. Motivazione prevalente è il far fronte a esigenze di conciliazione tra lavoro e cura (52%), seguita dal mancato rinnovo del contratto o licenziamento (29%) e da valutazioni di opportunità e convenienza economica (19%). Se a questo aggiungiamo i dati dell’Ispettorato Nazionale del lavoro, (Relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri ai sensi dell’art. 55 del Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 1519 realizzata con Inapp) emerge che in presenza di figli da 0 a 3 anni, al 2022 le richieste di dimissione di neo-genitori ammontano a 61.391 e nel 72,8% dei casi – 44mila – richieste da donne. Tra queste, il 63,6% indica esplicitamente tra le motivazioni delle dimissioni proprio la difficoltà di gestire lavoro ed esigenze di cura. Per gli uomini, invece, la motivazione principale è il passaggio a un’altra azienda (78,9% e solo in ultima istanza (7%) è citata l’esigenza di cura). C’è quindi alla base di questo fenomeno il persistere di una oggettiva asimmetria nel lavoro di cura, ancora considerato una funzione “tipicamente femminile” ed anche una oggettiva asimmetria nei redditi da lavoro tra uomini e donne. Eurostat ricorda che nelle famiglie in cui lavorano entrambi, le donne sono il reddito più debole (non superano il 40% del totale) e quindi nel momento in cui si pone la scelta di convenienza familiare sono le donne a sacrificare il lavoro, sacrificando anche competenze acquisite e spesso livelli di istruzioni elevati, interrompendo quindi il circuito positivo tra sviluppo del capitale umano e esperienza lavorativa. Tra i vari fattori che spiegano questa differenza di reddito tra uomini e donne, incide sia il fatto che le donne lavorano in settori mediamente meno remunerativi degli uomini e sia la grande incidenza del part time femminile (le donne sono oltre il 70% dei part Timers) che con meno ore lavorate garantisce remunerazioni inferiori. E quando parliamo di part time non consideriamo solo la riduzione di orario richiesta dalle lavoratrici per motivi personali (anche qui di conciliazione) ma anche la forma contrattuale offerta prevalentemente dalle aziende per motivi di riduzione del costo del lavoro, che viene a configurare il cosiddetto part time involontario. Inoltre, sempre in tema di conciliazione tra lavoro e cura, le madri sono per l’80% le persone che richiedono congedi parentali, pagati al 30% dello stipendio, e quindi, nel momento in cui si deve effettuare una scelta familiare di ricavare tempo per la cura e la casa ad essere sacrificato è inevitabilmente il reddito più basso. Tempo e soldi sono due chiavi di volta che operano a sfavore delle donne. L’assenza di tempo o il costo del tempo di cura che può risultare sproporzionato se affidato a terzi, soprattutto in un paese come il nostro in cui la quota di grandi anziani è in aumento, rappresenta il dilemma. Se il costo (monetario e di opportunità) di delegare a terzi una funzione di cura è sconveniente rispetto al proprio reddito, alla propria collocazione geografica o culturale, o se non sono disponibili reti familiari o servizi di supporto, allora la scelta familiare di risolvere il dilemma ricade sulla donna. In sintesi, il connubio tra fattore culturale (la cura è funzione femminile) e il reddito mediamente femminile inferiore a quello maschile producono una spirale da cui le donne non riescono ad uscire»
Cosa si può fare secondo lei per migliorare questa situazione? Quali interventi occorrono?
«Decenni di politiche di vario genere hanno innanzitutto dimostrato che non c’è una soluzione salvifica, una misura che possa rompere quella spirale di cui parlavo prima. C’è bisogno di una strategia che punti ad un policy mix di diverso tipo. Il punto di partenza tuttavia risiede nel “modo” con cui si affronta la questione. Sino a che la conciliazione viene interpretata, anche a livello di decisori politici, come un questione “privata” che riguarda non la società ma le singole famiglie e, all’interno delle famiglie come un problema “delle madri” , per cui si mettono a punto “misure a favore delle donne”, aiuti e sostegni la cui efficacia è rimessa alle capacità equilibrista delle donne, la situazione non migliorerà. La questione della cura è un valore sociale ed è anche un tema di “genitorialità condivisa” non solo di maternità. Da tanti anni si afferma che bisogna passare dalle misure di conciliazione alle misure di condivisione, adottando politiche paritarie tra donne e uomini, ma ancora la strada sembra lunga. Se abbiamo un generoso congedo di maternità di 5 mesi, abbiamo un congedo di paternità che è faticosamente arrivato a 10 giorni. La sproporzione tra questi due istituti la dice lunga sul cosa si pensa della gestione della cura della prima infanzia. Quello che spesso si dimentica quando si parla di diritti, oltretutto, è il punto di vista del bambino, che la legge 151/00 in modo lungimirante ha evidenziato come obiettivo delle politiche familiari a partire dai congedi parentali, ossia il “supremo diritto del bambino a disporre della presenza e della cura di entrambi i genitori in modo paritario”. Quindi il primo step è smettere di adottare sul tema della cura misure a favore delle donne e passare alla logica della condivisione e del recupero del ruolo paritario del padre. Vi sono ad esempio diverse proposte di legge sul congedo di paternità paritario a quello di maternità, che sono importanti anche da un punto di vista culturale. Perché nel momento in cui il sistema, ad esempio, sancisce che madri e padri in occasione di un figlio si assenteranno per lo stesso periodo, le imprese non avranno più atteggiamenti discriminatori nei confronti delle assenze per cura o la discrezionalità di esprimere preferenze nelle assunzioni in favore dei candidati uomini che, in quanto tali, avrebbero assicurato maggiore presenza sul lavoro. Altro aspetto per azzerare le differenze di genere e puntare alla condivisione è l’eliminazione delle assenze con retribuzione parziale, perché sino a quando i permessi di cura avranno una decurtazione percentuale dello stipendio sarà sempre il reddito più basso ad essere sacrificato per convenienza familiare. Ultimo ma non ultimo il versante discriminatorio».
Molte donne purtroppo vengono demansionate dopo la maternità, cosa definita illegittima e discriminatoria dai giudici, ma forse la strada per sancire la parità di genere è ancora lunga. Cosa pensa al riguardo?
«Credo che il cambiamento vada favorito anche attraverso il ribadire l’ovvio, supportato da adeguati apparati sanzionatori, l’uguaglianza e il pari trattamento sancito in Costituzione. Le donne in maternità non sono personale di serie B. Così come il rientro al lavoro non è un’arma o una minaccia (quante volte si anticipa un rientro con il bambino piccolo per timore di essere licenziata, allontanata o di perdere il lavoro o i progetti seguiti sino a poco prima). Le garanzia a tutela della maternità (così come della paternità) vanno esercitate sino in fondo. Per accompagnare questo processo, in ogni territorio (provincia e regione) ci sono le Consigliere di parità organo monocratico col compito di rilevare e combattere le discriminazioni sul lavoro, che in quanto pubblico ufficiale hanno anche la titolarità di un procedimento giudiziale ad hoc. Nonostante negli ultimi anni la parità di genere sia diventato un tema di interesse a livello internazionale ed anche un brand per la cultura organizzativa (si veda ad esempio la presenza attualmente di una certificazione di genere ai sensi della L. 162/21, che offre anche agevolazioni alle imprese), tuttavia, vi è un gap tra la declaratoria e la realtà quotidiana, in cui aumentano progressivamente i casi di discriminazione sul lavoro nei confronti delle madri. La cultura organizzativa prevalentemente maschilista ha radici lontane difficili da rimuovere. Si basa su quegli stereotipi di genere che partono dai libri delle classi elementari in cui la mamma cucina e il papa legge il giornale a tavola, passano per un mercato del lavoro in cui ai colloqui viene ancora chiesto se si ha intenzione a breve di avere figli, sino ad arrivare a valutare il tempo in maternità come una perdita di produttività. Ma l’importante è che il faro si sia acceso: la strada è lunga ma più luminosa».
Insomma gli asili in Italia sono pochi, alcuni anche molto costosi, i congedi sono impari, esiste una evidente iniquità salariale e stereotipi di genere che non aiutano la donna né nella sua carriera lavorativa né tantomeno la agevola nel suo ruolo di mamma. Oltre infatti alle motivazioni economiche c’è una indubbia matrice culturale che non può non essere considerata perché viviamo in una società che ancora vede incarnati nell’uomo certi privilegi, quali il potere economico e l’immagine pubblica. E così molte mamme si trovano costrette a rinunciare ad un lavoro che magari trovavano anche appagante, con tutte le conseguenze psicologiche che una scelta del genere può avere non solo su di sé ma anche sui propri figli. Ma questo è un discorso che meriterebbe un approfondimento a parte.
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