Il settore tessile e della moda italiana è, ormai da moltissimi anni, un pilastro fondamentale e uno dei motori principali della nostra economia. I numeri testimoniamo che l’industria è in salute ma l’aumento dei prezzi, il contesto geo-politico incerto, la mancanza di personale e l’innovazione digitale rappresentano delle sfide importanti. Ne abbiamo parlato con la presidente di Confindustria Moda, Annarita Pilotti.
Presidente quanto vale l’industria della moda (filiera pelle) in Italia? E quanto è importante il settore in termini di crescita economica del Paese?
«L’industria della Filiera Pelle, che raggruppa circa 11 mila imprese tra calzaturiero, pelletteria, concia e pellicceria, ha chiuso l’anno 2023 con un fatturato che si aggira attorno ai 32,8 miliardi di euro (-0,7% rispetto a quello registrato nel 2022 e in progresso rispetto a quello del 2021 che era pari a 29 miliardi di euro), a testimonianza di un consolidamento dopo il recupero post pandemia. I dati ci mostrano come le imprese del settore, che Confindustria Moda rappresenta, svolgano un ruolo importante nell’economia del Paese. E non solo: oltre al valore economico, il nostro comparto è riconosciuto in tutto il mondo per la creatività, la competenza e l’artigianalità che fanno del “Made in Italy” sinonimo di qualità ed esclusività».
A proposito di made in Italy quali i numeri dell’export? E chi traina maggiormente il mercato?
«L’export ha registrato una debole crescita nei primi 10 mesi del 2023 (+1,1%) che si è annullata nell’ultimo bimestre dello scorso anno. Le esportazioni – che da sempre sono il traino della filiera con un’incidenza sui ricavi superiore all’80% – hanno chiuso l’anno a 27,2 miliardi di euro, poco sotto i livelli 2022 (-0,8%). A trainare maggiormente il mercato del prodotto pelle italiano, la Francia (4,593 miliardi di euro, +14,9% rispetto al 2022), gli Stati Uniti (2,892 miliardi di euro, -4,1% rispetto al 2022), la Svizzera (2,688 miliardi di euro, -38,4% rispetto al 2022), la Germania (2,050 miliardi di euro, perfettamente in linea con il 2022) e la Cina (1,866 miliardi di euro, + 22% rispetto al 2022)».
Quali sono le figure più ricercate? E quanto è importante secondo lei investire nei giovani talenti?
«Investire sui giovani è necessario perché significa investire nel futuro della nostra filiera e in quello del “Made in Italy”: in Italia, secondo i dati di Unioncamere, nel periodo che intercorre tra il 2024 e il 2028 le imprese del settore moda e accessorio avranno bisogno di un numero di lavoratori che va dai 40mila ai 75mila circa, ma il nostro sistema educativo tecnico professionale ne forma molti meno (9.500 circa) generando un preoccupante mismatch che bisogna colmare. Se guardiamo nello specifico le nostre imprese, invece, i dati di Unioncamere ci dicono che le industrie della lavorazione delle calzature e delle pelli nello stesso periodo necessiteranno di circa 21.000 lavoratori. Questi dati sul fabbisogno (legato sia al pensionamento di molte figure che vanno in ogni caso sostituite sia alla contemporanea necessità di profili diversi dal passato) tuttavia trovano un ostacolo in questo momento: la nostra filiera sta soffrendo, la produzione è in calo, il ricorso alla cassa integrazione è in enorme salita. Confindustria Moda sta quindi lavorando su due piani in parallelo: da una parte è impegnata in diversi progetti per avvicinare i giovani alle professioni tecniche che il settore richiede, creando un rapporto costante fra il mondo delle imprese e le scuole, dall’altra in un dialogo con il Governo per trovare misure di sostegno che aiutino le nostre imprese in questo momento di transizione economicamente difficile, contando sul fatto che la ripresa economica e il risolversi delle crisi su molti mercati dovuti a diverse ragioni sostengano il commercio del Made in Italy. Le nostre aziende vogliono far entrare i giovani, garanzia del futuro: ma devono poterlo fare ritrovando una stabilità economica che lo consenta. Le competenze ricercate sono molto diverse fra loro: da operai specializzati in grado di utilizzare le tecnologie di industria 4.0 a figure del settore sostenibilità in grado di reinventare e ottimizzare i processi produttivi per renderli più sostenibili, così come di applicare i principi della circolarità per far rivivere i prodotti. Ma queste figure devono poter entrare in un’impresa “che gira”: questo è il nostro compito nell’immediato».
Come ci si prepara a lavorare adeguatamente nel mondo della moda?
«Innanzitutto è molto utile una buona formazione tecnico professionale che permetta di acquisire tutte le abilità necessarie. Le competenze tecniche e scientifiche, infatti, costituiscono un aspetto del lavoro apparentemente “nascosto”, ma che è il fulcro dei prodotti “Made in Italy”. Un lavoro fondamentale per la nostra filiera e che deve coniugarsi con la creatività, altra componente essenziale, nonché fattore di competitività del Made in Italy».
Quali sono le criticità nel fare impresa in questo settore? Su cosa intervenire e come?
«Il nostro comparto è fatto di tante piccole e medie imprese che adesso si trovano in difficoltà, soprattutto nel competere sui mercati internazionali e le problematiche sono diverse: dall’aumento dei costi energetici e delle materie prime che è stato registrato negli ultimi anni alla necessità di far fronte all’attuale incertezza geopolitica, dal mismatch tra formazione e fabbisogno lavorativo che citavamo poco fa all’esigenza di adottare nella produzione pratiche più innovative e, soprattutto, più sostenibili per essere pronti ad affrontare la sfida della transizione ecologica. L’urgenza adesso è quella di sostenere le aziende per superare questo momento di contingenza economica. Per questo Confindustria Moda sta lavorando a stretto dialogo con le istituzioni e nell’ambito del Tavolo della Moda, istituito presso il Mimit, per supportarle in questo periodo particolare affinché il nostro settore, culla del Made in Italy e sinonimo del “bello e ben fatto” in Italia e nel mondo, continui ad essere produttivo e competitivo a livello internazionale».
Il capitalismo ha imposto un modello di consumo per cui si vogliono cose nuove anche prima che quelle vecchie siano “consumate” del tutto. Per stare al passo con i tempi è necessario quindi investire sulle nuove tecnologie, anche se i costi rimangono eccessivamente elevati per le piccole e medie aziende italiane. Ma non solo: si deve porre l’attenzione anche sul cambiamento climatico e favorire una transizione ecologica. Insomma innovazione e sostenibilità sono le parole chiave di un cambiamento che il settore deve fare per continuare a rappresentare un orgoglio del nostro Made in Italy.