Il Fmi vede l’inflazione statunitense tornare all’obiettivo del 2% nel 2025. Lo afferma Kristalina Georgieva, direttore operativo del Fondo monetario internazionale.
Il direttore generale Kristalina Georgieva, ha dichiarato che le previsioni del Fmi sull’inflazione degli Stati Uniti sono un po’ più ottimistiche rispetto alle previsioni della Federal Reserve, in parte perché il boom dei consumi post-pandemia del Paese potrebbe attenuarsi.
Georgieva ha detto ai giornalisti dopo aver rilasciato una dichiarazione sulla revisione annuale delle politiche economiche statunitensi del Fmi, che la traiettoria dell’inflazione statunitense dà al Fmi la fiducia che l’inflazione tornerà all’obiettivo del 2% della Fed nel 2025, prima della previsione della Fed stessa del 2026.
Anche con il cauto ottimismo l’Fmi torna a salire in cattedra, invitando la Fed di Jerome Powell a non tagliare i tassi sui fed funds Usa almeno fino alla fine dell’anno.
L’alt è arrivato per voce della stessa direttrice del Fondo Monetario Internazionale Kristalina Georgieva che, in un incontro con la stampa avvenuto nella giornata di ieri, ha sottolineato che l’Fmi «riconosce la presenza di rischi al rialzo importanti, e che, considerati questi rischi, concordiamo sul fatto che la Fed dovrebbe lasciare invariati i tassi ai livelli attuali almeno fino alla fine del 2024».
Nello spiegare la sua posizione l’istituzione di Washington ha ricordato che gli Stati Uniti sono l’unica economia del G20 che assiste a una crescita del Pil superiore ai livelli precedenti alla pandemia Covid-19, e che un ritmo di espansione robusto comporta continui rischi al rialzo per l’inflazione.
Georgieva, secondo un articolo della CNBC, ha motivato la solidità economica degli Stati Uniti, che si è manifestata anche nel 2022 e nel 2023, stessi anni in cui la banca centrale ha alzato ripetutamente i tassi, con l’offerta di lavoro e con i guadagni della produttività.
«E’ dunque necessario – ha auspicato che – ci siano chiari prove del fatto che l’inflazione stia scendendo al target del 2%, prima che la Fed tagli i tassi».
Allo stesso tempo, il Fondo ha ammesso di essere più ottimista sulla traiettoria al ribasso dell’inflazione degli Stati Uniti, grazie ai recenti dati macro, che hanno indicato un rallentamento del mercato del lavoro e un indebolimento della domanda dei consumatori.
L’attenti alla Fed lanciato da Georgievasi basa sulle stesse stime che l’Fmi ha formulato sul trend dell’indice PCE core, il trend del parametro preferito da Powell & Co. per valutare il trend dell’inflazione, che sarà tra l’altro reso noto proprio nella giornata di oggi: stime che pronosticano un PCE core attorno al 2,5% alla fine del 2024 e attorno al target della Fed del 2% entro la metà del 2025, prima dunque delle proiezioni della stessa banca centrale Usa, che prevede che il proprio obiettivo di inflazione sarà raggiunto soltanto nel 2026.
C’è poi il fattore incertezza, che la direttrice dell’Fmi ha ricordato: «Desidero mettere in evidenza che una lezione che abbiamo appreso negli ultimi anni è che ci troviamo in un momento di maggiore incertezza. E che questa incertezza è anche davanti a noi. Siamo in ogni caso fiduciosi sul fatto che la Fed attraverserà questa fase, certamente con la stessa prudenza che ha dimostrato negli ultimi anni».
La cautela della Fed di cui ha parlato Georgieva è dimostrata dai fatti. A fronte di una Bce di Christine Lagarde che, lo scorso 6 giugno,ha tagliato i tassi dell’area euro per la prima volta dall’era Draghi, la Federal Reserve ha continuato a rimanere non solo ferma, ma ha anche stracciato le proprie attese sui tagli dei tassi precedentemente attesi, come ha dimostrato l’aggiornamento del suo plot.
Il punto è che l’outlook sfornato dalla Fed ha legato ulteriormente le mani alla Bce di Lagarde che, per quanto a voce reclami l’indipendenza della sua politica monetaria da quella della Fed, è obbligata a tenere conto delle mosse di Powell, a causa del rischio dell’inflazione importata, che salirebbe nel caso in cui, per effetto della divergenza tra i tassi Usa e quelli dell’Eurozona, l’euro accusasse un dietrofront troppo sostenuto nei confronti del dollaro.