Quella di oggi è la prima puntata di un lungo cammino che accompagnerà i lettori di Business24 in collaborazione con eToro alla scoperta delle varie economie emergenti che fanno parte (o che ne faranno parte in futuro) dei cosiddetti Brics, acronimo che inizialmente includeva solo Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica ma che in questi ultimi mesi si sta allargando ad altre nazioni. Una conferma definitiva del fatto che il panorama geopolitico negli ultimi anni ha visto una continua evoluzione. Una serie di metamorfosi che hanno più volte ridisegnato l’orizzonte politico e sconvolto gli equilibri economici internazionali. Il sistema bipolare, contraddistinto dai due blocchi dell’Occidente e dell’Oriente, è ormai una concezione ampiamente superata. E con essa anche le organizzazioni commerciali e le alleanze che l’hanno accompagnata. Quali sono, ora, i nuovi protagonisti dei mercarti e quali saranno in futuro? Ad offrirci una panoramica è Gabriel Debach, market analyst di eToro.
L’acronimo “BRIC” fu coniato nel 2001 dall’economista della Goldman Sachs Jim O’Neill. Inizialmente includeva solo le economie di Brasile, Russia, India e Cina (successivamente fu aggiunto il Sudafrica) viste come quelle con la maggior velocità di crescita. Le previsioni, allora, le davano come future protagoniste dell’economia globale entro il 2050. Ma nel tempo molte cose sono cambiate, a cominciare dalla composizione del club, sempre più ampio. È possibile fare una breve ricostruzione dell’evoluzione registrata nel tempo dai BRIC?
«La formula BRIC appare per la prima volta nel paper di O’Neill “Building Better Global Economic BRICs,” nel quale l’economista sosteneva che, affinché la governance economica riflettesse la nuova realtà mondiale, fosse necessario ristrutturare il gruppo del G7 per incorporare Brasile, Russia, India e Cina nella definizione delle politiche sovranazionali. L’architettura iniziale dei BRIC si basava sul triangolo asiatico formato da India, Cina e, soprattutto, Russia, che già nel 2002 aveva promosso una collaborazione più stretta tra questi Paesi. Nel 2009 si è tenuto il primo vertice dei BRIC in Russia, dove i leader politici dei quattro Paesi hanno messo l’accento sulla necessità di riformare le istituzioni finanziarie internazionali, che a loro avviso non rispondevano agli interessi del Sud globale né rappresentavano, adeguatamente, i Paesi in via di sviluppo. Fu presto chiaro, tuttavia, che un’alleanza prevalentemente asiatica non sarebbe stata sufficiente per ampliare la propria influenza globale, né per proporsi come un’alternativa concreta all’egemonia occidentale, in particolare quella degli Stati Uniti, fu necessario coinvolgere altre potenze di altri continenti. La prima, nel 2010, è stata il Sudafrica (all’epoca la più grande economia africana), che ha portato così l’acronimo ufficiale a BRICS. L’ingresso del Sudafrica è stato fortemente voluto dalla Cina, che, nel frattempo, aveva rafforzato la propria presenza economica e diplomatica nel continente. Nel corso degli anni, il blocco ha istituito una serie di incontri annuali dedicati alla cooperazione diplomatica e allo sviluppo di iniziative congiunte, che hanno incrementato l’attrattiva dei BRICS al punto che, al 15º vertice tenutosi a Johannesburg nell’agosto del 2023, 22 Paesi hanno formalmente chiesto di aderire all’organizzazione. Di questi, quattro sono ufficialmente entrati nel gruppo (Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran), mentre la Turchia, solo un paio di settimane fa, è stata l’ultima a richiedere formalmente di aggiungersi al blocco».
Qual è il peso sulla bilancia dell’economia mondiale che coprivano al momento della nascita e quale quello che coprono attualmente? E quali sono le previsioni per il futuro?
«Già dalla sua nascita, il gruppo BRIC copriva una porzione significativa dell’economia globale, grazie alla presenza di potenze economiche come Cina e Russia, oltre a economie emergenti influenti su scala continentale, come il Brasile: nel 2001, l’anno in cui fu coniato l’acronimo, la quota dei Paesi BRICS sul PIL totale a livello mondiale era poco più del 20%, mentre quella dei Paesi del G7 ammontava al 42,7%. Nel 2010, con l’ingresso del Sudafrica, il blocco rappresentava circa il 29% del PIL mondiale: all’epoca, la Cina in particolare stava vivendo uno sviluppo economico impressionante, con un tasso di crescita del PIL che, tra il 2000 e il 2008, sfiorava il 13% annuo, arrivando nel 2010 a posizionare il Paese del dragone come la seconda economia mondiale dietro gli Stati Uniti. Allo stesso tempo, l’India e il Brasile registravano una crescita economica altrettanto significativa: l’India raddoppiava il suo tasso medio di crescita rispetto agli anni ’90, raggiungendo il 5,8%, e il Brasile toccava una crescita del 7,5% nel 2010, il più alto tasso in 25 anni, trainato dal boom delle materie prime. Oggi, il gruppo BRICS copre circa il 27% del PIL mondiale, con un valore aggregato superiore ai 28 trilioni di dollari. I Paesi membri occupano circa il 30% della superficie terrestre globale e ospitano circa il 45% della popolazione mondiale. Inoltre, il gruppo rappresenta circa il 40% della produzione e delle esportazioni di greggio. Guardando al futuro, si prevede che la Cina supererà gli Stati Uniti come prima economia mondiale entro la fine del decennio, mentre anche l’India potrebbe sorpassare gli Stati Uniti entro il 2050. Questo consoliderebbe ulteriormente il ruolo del blocco BRICS come principale sfidante geopolitico e economico al G7, grazie anche a iniziative come la Nuova Banca di Sviluppo, creata nel 2014 per investire in infrastrutture sostenibili e energie rinnovabili in tutto il mondo».
Si potrebbe intendere il gruppo dei BRICS come una sorta di “economia alternativa”, con tutti i parametri che ne derivano, da quella occidentale?
«A mio avviso, per quanto tale gruppo possa continuare a espandersi includendo altri Paesi emergenti, il blocco potrebbe consolidare il suo peso economico, ma resterebbe geopoliticamente debole. L’eterogeneità di sistemi politici, economici e culturali all’interno dei BRICS mette infatti a nudo le difficoltà associate al raggiungimento di un terreno comune su qualsiasi nuovo sistema di governance globale. Per contro, il sistema dominato dall’Occidente che essi cercano di contrastare, pur non essendo perfetto, è molto più omogeneo, fondato su un ordine basato su regole consolidate e privo delle tensioni geopolitiche che attanagliano i nuovi BRICS. Prima ancora di affrontare i problemi di un futuro allargamento, i BRICS dovrebbero risolvere le divisioni già presenti al proprio interno. In particolare, è il gigante indiano a rappresentare una specie di “infiltrato” dell’Occidente, visto l’allentamento del suo asse con la Russia e il rafforzamento dei legami militari con gli Stati Uniti. Inoltre, la Russia è diplomaticamente isolata e sono pochi i Paesi disposti ad allearsi con Mosca in questo momento. Brasile e Sudafrica sono poi restii a far entrare nuovi paesi per non perdere i loro privilegi regionali e la Cina non è vista di buon occhio sia dal Brasile che dall’India. Se l’allargamento del blocco potrebbe senz’altro accrescerne l’attrattività, è ancora incerta la capacità dei BRICS a 11 di realizzare le loro ambizioni e mettere a punto un nuovo ordine realmente “alternativo” a quello attuale. L’eterogeneità interna, i disaccordi sull’allargamento e su questioni fondamentali come la riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e le dispute territoriali tra Cina e India, rappresentano, a mio avviso, ostacoli decisamente significativi alla coesione e al rafforzamento del gruppo».
Recentemente la Turchia ha chiesto di far parte dei BRICS, una notizia dal forte valore simbolico, oltre che economico, dal momento che la Turchia è un punto di collegamento storico, geografico e politico tra l’Oriente e l’Occidente, mentre da alcuni analisti i BRICS sono visti come una sorta di alleanza antioccidentale. Quali considerazioni si possono fare al riguardo?
«La richiesta della Turchia di entrare nei BRICS rappresenta una significativa mossa diplomatica, che potrebbe segnare un cambiamento (e un allontanamento) nei rapporti tra Ankara e i suoi storici alleati occidentali. Non si tratta, ad ogni modo, di una notizia che coglie di sorpresa. Sebbene se ne parli già dal 2018 quando, durante il vertice di Johannesburg, la Turchia si sedette solo come osservatrice, la richiesta formale di adesione sarà discussa al prossimo vertice dei BRICS che si terrà a Kazan, in Russia, il prossimo ottobre. Se ammessa, la Turchia diventerebbe il primo Paese NATO (nonché candidato all’adesione per l’UE) a diventare membro dei BRICS. Il blocco, che al contrario dell’UE non ha particolari richieste di riforme e revisioni interne prima di annettere un nuovo membro, esercita da tempo una grande attrazione per le medie potenze regionali, come la Turchia, che vogliono acquisire una maggiore rilevanza (del resto, la lista d’attesa per entrare nei BRICS+ conta già non pochi Paesi). L’adesione della Turchia verrebbe accolta positivamente, in particolare da Teheran, Pechino e Mosca, che vedrebbero in questo un’importante vittoria diplomatica. La Turchia, con la sua posizione geografica strategica, le risorse minerarie e il peso economico e militare, potrebbe diventare un alleato chiave nel tentativo di creare un contrappeso all’influenza economica e politica occidentale. Questo evento potrebbe anche rappresentare un segnale d’allarme per i partner occidentali, preoccupati per un ulteriore allontanamento di Ankara dall’alleanza atlantica. Non va sottovalutato il ruolo di Recep Tayyip Erdoğan, al potere da oltre un decennio. Negli ultimi anni, le sue politiche si sono sempre più distanziate dai valori liberali occidentali, avvicinandosi a quelli di paesi come Iran e Russia. Nonostante le sue relazioni ufficiali con la NATO, la Turchia ha mantenuto stretti rapporti con Mosca, anche in periodi di sanzioni internazionali, aumentando le tensioni con l’Occidente. Questa evoluzione, insieme ai continui attriti con Israele e le crescenti frizioni con i paesi europei, potrebbe spingere Ankara su un percorso sempre più distante dalle visioni politiche e strategiche dell’Europa».
Attualmente l’economia turca vede un’inflazione al 50% e consumi in rallentamento. Quali sono le conseguenze di un costo della vita tanto pesante? E quali le previsioni per il futuro economico della nazione? I problemi che hanno portato la Turchia agli onori della cronaca finanziaria sono anche alla base della scelta di Erdogan di portare la Turchia nei BRICS?
«L’ingresso della Turchia nei BRICS potrebbe essere interpretato come una risposta alle sfide economiche che il Paese sta affrontando. Con un settore manifatturiero solido, la Turchia avrebbe accesso a vasti mercati per i suoi prodotti e servizi, oltre a nuove opportunità per lo sviluppo tecnologico e infrastrutturale, grazie agli investimenti provenienti in particolare da Cina e Russia. Questo non solo contribuirebbe a riequilibrare il peso economico del Paese, ma aprirebbe nuove prospettive di crescita in aree strategiche. Il partenariato con i BRICS offrirebbe inoltre alla Turchia una maggiore diversificazione delle sue relazioni commerciali, consentendole di ridurre la dipendenza dalle istituzioni finanziarie occidentali. Ciò permetterebbe ad Ankara di spostare il focus verso i mercati emergenti di Asia, Africa e Medio Oriente, regioni chiave per le sue esportazioni e per rafforzare il suo ruolo di ponte commerciale tra l’Europa e il resto del mondo. La Turchia, però, paga anche il prezzo delle scelte del suo leader. Le politiche macroeconomiche errate e le ingerenze politiche interne hanno aggravato una situazione economica già complessa, caratterizzata da inflazione elevata, svalutazione della lira turca e un rallentamento dei consumi. Questi fattori hanno avuto un impatto profondo sul costo della vita e sul potere d’acquisto della popolazione. Per Ankara, unirsi ai BRICS potrebbe rappresentare una via per migliorare la cooperazione economica con potenze come Russia e Cina e diventare un nodo strategico per il commercio di gas, collegando l’UE e l’Asia. Allo stesso tempo, l’interesse per i BRICS riflette una visione più allineata a quelle non occidentali, con la Turchia che mira a rafforzare la sua posizione come leader regionale nel Medio Oriente. Le ambizioni di Ankara puntano a sfruttare il suo ruolo geopolitico per diventare un hub energetico e commerciale, consolidando la sua influenza non solo tra i partner asiatici, ma anche in Africa e Medio Oriente».
Con il potenziale ingresso di Ankara alcuni hanno suggerito di cambiare l’acronimo in BRICST. Si tratta di una sigla che rischia di essere riduttiva rispetto al potenziale che il gruppo rappresenta oppure sarà necessario ancora del tempo prima che i BRICS occupino il ruolo di primo piano che O’Neill aveva previsto 23 anni fa?
«L’eventuale ingresso della Turchia nei BRICS rappresenterebbe un cambiamento significativo per l’equilibrio geopolitico globale, e questa nuova formula che sta prendendo piede ne conferma la rilevanza. Questo ampliamento potrebbe attrarre ulteriori paesi emergenti a considerare l’adesione, amplificando il peso del gruppo e rendendolo un attore sempre più rilevante nelle dinamiche internazionali, magari proprio con la portata immaginata da O’Neil. D’altro canto, l’aggiunta di nuovi membri, pur potendo incrementare le risorse economiche e legittimare ulteriormente il gruppo, potrebbe anche portare a sfide significative. Le divergenze di interessi e priorità tra i membri potrebbero complicare il raggiungimento di un consenso su questioni chiave e compromettere la capacità del blocco di rispondere rapidamente alle sfide globali. Inoltre, l’espansione potrebbe diluire l’identità del gruppo, rischiando di indebolire la sua coesione».
In definitiva – conclude Debach – solo con un’adeguata integrazione dei nuovi membri e una gestione efficace delle divergenze interne, il BRICS potrà avvicinarsi al ruolo di primo piano previsto da O’Neill: il successo e l’influenza futura dei BRICS dipenderanno dalla capacità del gruppo di adattarsi e rispondere alle sfide globali.
Il prossimo viaggio di Business24 ed eToro alla scoperta dei Brics vedrà protagonista la Russia, uno degli Stati fondatori del gruppo.