La recente storia politica statunitense ci ha regalato elezioni che più di una volta hanno promesso di passare alla storia. Una promessa che è stata ampiamente mantenuta in diversi casi. Il primo, nel 2000 con l’elezione del repubblicano George Bush Jr eletto con uno scarto di 537 voti in Florida e per giunta dopo un lungo strascico giuridico che lo vide contrapporsi al suo allora avversario, il democratico Al Gore. Da non dimenticare nemmeno le più recenti elezioni del 2016 che hanno portato alla Casa Bianca, a sorpresa, Donald Trump, altro repubblicano, e che hanno messo sotto i riflettori il complicato e macchinoso sistema elettorale statunitense.
Kamala Harris, il volto nuovo
Ma quelle che si svolgeranno il 5 novembre di quest’anno sicuramente saranno votazioni senza precedenti. A cominciare dal fatto che il candidato scelto dai democratici, l’attuale presidente Joe Biden, è stato cambiato durante la campagna elettorale. Una decisione che ha permesso ai democratici di recuperare il gap con gli avversari (gap che a causa delle innumerevoli gaffe di Biden stava diventando quasi incolmabile) e, contemporaneamente, riconquistare l’antico entusiasmo di alcune fasce di elettori, giovani e donne, che Biden non era mai riuscito a coinvolgere. Il cambio ha permesso anche all’attuale vicepresidente in carica, Kamala Harris, di essere la prima donna a correre per la presidenza a stelle e strisce. Non solo ma sarà anche la prima afroasiatica ad occupare (forse) il posto di comando della prima potenza mondiale.
I grandi nomi si dividono
Una novità, la figura di Kamala Harris, che ha attirato l’attenzione di molte star di Hollywood ma, allo stesso tempo, rafforzato la base più estremista dei repubblicani. Da parte sua la Harris può contare sull’appoggio di nomi di primo piano nel panorama dello spettacolo. A suo favore, infatti, si sono pronunciate star del calibro di Bruce Springsteen, Cher, George Clooney, Taylor Swift, Sarah Jessica Parker, Whoopi Goldberg, Billie Eilish, Beyoncè, Robert De Niro , Jennifer Lawrence , Fran Drescher, Anne Hathaway e Spike Lee, solo per fare alcuni nomi.
Anche da parte repubblicana la lista dei sostenitori è piuttosto nutrita: Hulk Hogan, Mike Tyson , Don King ma la vera punta di diamante dell’ex presidente è Elon Musk il quale, anche in vista di un possibile ruolo nella futura amministrazione repubblicana, ha ampiamente sostenuto la campagna di Trump con cifre che hanno messo a dura prova le norme sui finanziamenti privati.
L’incognita Musk
Infatti il patron di Tesla e SpaceX pare aver offerto 47 dollari per ogni firma raccolta a favore del tycoon negli stati chiave, un annuncio che ha sollevato le perplessità di molti esperti i quali hanno sottolineato che l’iniziativa promuove una ricompensa in denaro in cambio della registrazione al voto (come è noto, infatti, negli USA per votare è necessario registrarsi alle liste). Ma le sue iniziative non si sono fermate qui. Musk ha infatti proposto una lotteria per assegnare ogni giorno una vincita di un milione di dollari a uno degli elettori registrati che firmano la petizione promossa dal Super PAC, i piani di finanziamenti il cui scopo è quello di raccogliere fondi a favore o contro un candidato. In particolare quello dedicato a Trump potrà sfruttare un finanziamento trimestrale di 75 milioni di dollari forniti sempre da Musk.
Sul fronte democratico, però, non si resta con le mani in mano e anche i grandi nomi della finanza hanno deciso di aprire il portafogli. Bill Gates potrebbe aver effettuato una donazione di 50 milioni di dollari per la campagna di Kamala Harris sullo sfondo la paura di un ritorno di Trump alla Casa Bianca. Il condizionale è d’obbligo dal momento che l’unica possibile conferma (o interpretazione in questo senso) arriverebbe da alcune sue dichiarazioni al New York Times «Sostengo i candidati che dimostrano un chiaro impegno nel migliorare la sanità, ridurre la povertà e combattere il cambiamento climatico negli Stati Uniti e nel mondo. Questa elezione è diversa con il suo significato senza precedenti per gli americani e i più deboli al mondo».
Le politiche
Insomma, una lotta, quella tra Trump ed Harris, senza esclusione di colpi (compresi pomeriggi passati da Trump a friggere patatine) ma che, nonostante tutto, non sembra portare grandi vantaggi a nessuno dei due esponenti. Infatti dopo il rally iniziale nato sull’onda dell’entusiasmo, la corsa della Harris sta rallentando. Per questo motivo entrambi i candidati anno deciso di ottimizzare le risorse e conquistare i voti che potrebbero fare la differenza. In questo frangente il delta discriminante è rappresentato dai voti degli afroamericani e dei latinos, ovvero quegli elettori con origini ispaniche.
Kamala Harris ha già dichiarato di non voler essere una continuazione dell’amministrazione Biden ma, inevitabilmente, ne porterà avanti alcuni progetti. Biden, ad esempio, con l’Inflation Reduction Act aveva puntato sullo sviluppo e l’incentivo delle politiche energetiche green con 1.200 miliardi di dollari di sovvenzioni entro il 2032. Nella stessa agenda sono poi finiti anche i chip e la produzione entro i confini nazionali, dei preziosissimi semiconduttori con l’approvazione del Chips and Science. In questo punto la politica di Harris/Biden si lega a quella di Trump il quale, come nel 2016, puntava a riportare a casa la manifattura potenziando allo stesso tempo la sicurezza delle catene di approvvigionamento.
Ma a prescindere da questa serie di iniziative che potrebbero favorire il voto popolare, la vera incognita restano ancora un volta i grandi elettori, in particolare quelli dei cosiddetti swing states, primo fra tutti la Pennsylvania e senza dimenticare Wisconsin, Michigan, Georgia, North Carolina, Arizona e Nevada.
Sì, perché gli Stati Uniti vige il sistema del collegio elettorale. L’articolo 2 della Costituzione statunitense, infatti, stabilisce che gli elettori chiamati alle urne (dopo essersi registrati nelle liste di voto) scelgano gruppo di grandi elettori il cui numero cambia a seconda dello stato di riferimento e che non sempre corrisponde alla volontà del voto popolare. Un esempio eclatante è stata proprio la già citata elezione del 2016 quando Hillary Clinton conquistò il maggior numero di voti ma fu Donald Trump ad aggiudicarsi gli stati con il maggior numero di grandi elettori. L’insieme dei grandi elettori va poi a comporre il Collegio elettorale del proprio Stato che, a sua volta, eleggerà ufficialmente il presidente degli Stati Uniti attraverso dei voti che saranno successivamente ratificati dal Congresso in seduta congiunta presieduta dal vicepresidente in carica. Solo allora inizierà il mandato quadriennale del nuovo presidente. Chiunque esso sia.