Salvaguardare mare e oceani sta diventando un obiettivo sempre più pressante. Non a caso, tra i 17 SDG (Sustainable Development Goals), vale a dire gli obiettivi di sviluppo sostenibile delineati dalle Nazioni Unite nell’Agenda 2030 nell’ambito della lotta ai cambiamenti climatici, due sono legati proprio all’acqua. La recente crisi idrica globale e la lotta continua all’inquinamento delle coste, poi, hanno posto ancora di più l’attenzione su queste tematiche. L’impegno dell’Europa per la difesa degli oceani e del mare è concreto. L’Unione ha annunciato un piano d’azione, per il solo 2024, ambizioso con uno stanziamento pari a 3,5 miliardi di euro per portarlo a termine. Di tutto questo abbiamo parlato con Mario Mattioli, presidente della Federazione del mare.
Partiamo dal principio…che cosa si intende per blue economy, come si articola e quali sono i suoi obiettivi?
«La blue economy la possiamo definire come tutto ciò che ha a che fare con l’economia del mare ed il suo obiettivo è quello di utilizzare in modo sostenibile le risorse dell’acqua, degli oceani per generare una crescita economica, migliorare la qualità di vita degli individui, preservando allo stesso tempo l’ecosistema marino. Ha una sua connotazione di filiera. Ricomprende i settori tradizionali, che comprendono le attività storiche legate al mare, come la pesca, l’acquacoltura, il trasporto marittimo, il turismo costiero e le costruzioni navali. Quelli emergenti che includono le attività che sfruttano le nuove opportunità offerte dal mare, come le energie rinnovabili marine, la biotecnologia blu, l’osservazione e la sorveglianza marina, la robotica e l’intelligenza artificiale applicate al mare, il turismo sostenibile e il patrimonio culturale marino. Vi rientrano anche i settori abilitanti, che riguardano le infrastrutture, i servizi e le competenze necessari per sostenere lo sviluppo della Blue Economy, come i porti, le reti di comunicazione e la movimentazione che riguarda le merci».
Quanto vale attualmente il settore?
«Nell’ultimo rapporto di Unioncamere la blue economy viene valutata 180 miliardi di euro, quindi si tratta di una economia strategica. Ha circa 65 miliardi di valore diretto ma poi genera un indotto di circa 113 miliardi. Ha circa 230 mila aziende che vi operano e dà lavoro ad un milione e 50 mila unità. Ci sono diversi report che attestano che il totale delle merci che si scambiano nel mondo è circa 12 miliardi di tonnellate il cui valore è circa 14 trilioni di dollari. Di questi, la via del mare ne trasporta il 90% in termini di quantità (10,8 miliardi di tonnellate), che rappresenta il 70% in termini di valore (9,8 trilioni di dollari). Non è un caso che, guardando alla storia, le potenze più ricche e importanti erano quelle che avevano il dominio sul mare. E la globalizzazione non ci sarebbe stata senza l’accesso via mare».
Qual è l’impegno dell’Europa per la difesa del mare? E quali le sfide più importanti da vincere?
«Ci sono intanto delle regole precise che mirano alla preservazione degli oceani. Per esempio, nel passato si poteva scaricare in mare l’acqua che proveniva dai lavaggi delle cisterne, quindi che avevano dei residui oleosi, questo oggi non è più possibile. Nel tempo si è cercato anche di ridurre l’impatto delle pitture che vengono usate per gli scafi delle navi, utilizzando materiali non tossici, biodegrabili e più sostenibili. Il vero dramma è l’inquinamento del mare che viene da Terra, come l’annoso problema della plastica scaricata in mare. Anche le crisi belliche, come ad esempio quella in Medio Oriente con gli Houti che bombardano con i droni le naviche transitano il Canale di Suez, rappresentano un pericolo per l’inquinamento. Le navi, infatti, trasportano petrolio o hanno nei loro serbatoi ingenti quantità di olio combustibile per la navigazione. L’Unione europea da un po’ di tempo sta facendo una politica molto orientata all’ambiente attraverso la tassazione per le emissioni di C02. Il mondo del mare è stato ricompreso da quest’anno nel famoso schema degli ETS (Emission Trading System) ossia il sistema di scambio delle quote di emissione. Questo sistema risulta, attualmente, lo strumento principale dell’Unione Europea per affrontare la riduzione delle emissioni ed interessera oltre 11.000 impianti industriali e circa 600 operatori aerei. La nuova direttiva (direttiva UE 2023/959) sul sistema ETS va ad intervenire sul settore dei trasporti aerei e marittimi, ma introduce anche un nuovo comma relativo agli impianti di incenerimento per rifiuti urbani, attualmente esclusi dal sistema, ma che, a partire dal 2026, potrebbero dover pagare le quote di CO₂ emesse. Noi abbiamo sempre un po’ criticato questa tassazione perché ad oggi non esiste una tecnologia nel sistema marittimo che possa far muovere una nave in maniere sostenibile, quindi senza uso di carburanti fossili. È un paradosso perché c’è attualmente una multa per l’utilizzo dell’unica tecnologia al momento disponibile perché impattante. C’è anche da dire che i più importanti studiosi dell’ambiente hanno sempre definito il trasporto via mare come quello più sostenibile per merce trasportata, di gran lunga rispetto all’areo, al gommato e al ferroviario».
E come aiutare le aziende del settore a crescere e a sviluppare soluzioni ecosostenibili per tutelare gli ambienti marini?
«Tutta l’infrastruttura sottomarina ha un’importanza strategica anche e soprattutto per l’estrazione dei materiali rari che poi vengono usati per realizzare quei microchip che servono per gli smartphone, l’automotive e l’hi-tech in generale. E’ chiaro che lo scopo ultimo è quello di rendersi indipendenti rispetto agli altri Paesi per la fabbricazioni di questi semiconduttori, oggi tanto essenziali quanto rari. Bisogna individuare queste aziende, riconoscerne la potenzialità e supportarle. Quello che noi abbiamo chiesto all’Europa è che i soldi che provengono dalla tassazione sulle navi vengano usati per la ricerca, in tempi quanto più rapidi possibili, di carburanti alternativi, bio o sintetici, che emettono sempre meno CO2 e che possono anche essere usati in motori endotermici. In Italia poi si sta lavorando con il Pnrr per elettrificare i porti e le loro banchine, alla stregua delle colonnine per la ricarica delle auto, anche se più complesse da realizzare in funzione delle grandi quantità di elletricità necessarie alle navi (anche fino a 15 MW).. Molti sono convinti che gli investimenti green, come questo, non vengano fatti perché costano, io le dico che ci sono molti settori in cui è impossibile fare ciò perché manca la tecnologia industrialmente scalabile».
L’Italia ha una posizione geografica privilegiata, con una superficie marina di circa 500.000 km2, pari a circa il 60% della sua superficie terrestre. Come sfruttare al meglio questo vantaggio?
«Nel passato si diceva che l’Italia si fosse dimenticata di essere un Paese marittimo perché oggettivamente le parole nave, porto, mare, blue economy comparivano poco nei programmi governativi. Oggi fortunatamente abbiamo un Governo con all’interno un Ministero per le Politiche del mare che ha stilato un piano che prevede il coordinamento tutti i Dicasteri che in qualche modo sono collegati con il mare come quello delle Infrastrutture e dei Trasporti, dell’Ambiente, dell’Agricoltura, delle Finanze, della Salute. Questo piano si prefigge di preservare il mare proprio come bene per la vita e poi di renderlo sempre di più un attrattore economico attraverso il miglioramento dei nostri porti. Siccome siamo una Nazione che si spinge nel Mediterraneo – l’Italia è sempre stata definita la piattaforma logistica europea del Mediterraneo – per noi il mare rappresenta una risorsa davvero fondamentale. Questo vuol dire che dobbiamo rendere i nostri porti più efficienti e più grandi, altrimenti le navi, che sono di dimensioni sempre più grandi – e questo significa meno inquinanti per unità di merce trasportata – scalano i porti nel nord Europa e non da noi. L’Italia sconta un gap logistico che Confindustria calcola essere circa 80 miliardi di euro ogni anno. L’ultima Manovra finanziaria è di 35 miliardi, quindi l’inefficienza del sistema portuale sconta, ogni anno, due finanziarie. Il problema è che le aziende pagano la tassa di importazione laddove scaricano le merci, anche se la destinazione finale siamo noi. Così contribuiamo a favorire i conti di Paesi che magari hanno meno bisogno di noi. Una delle grandi sfide è quella di sviluppare i porti del Mezzogiorno, attraverso l’implementazione delle ZES, industrializzando così anche questa importante parte del Paese. Per raggiungere questi obiettivi dobbiamo fare le riforme, sburoctatizzare, digitalizzare, semplificare e far rispettare le regole».
Possiamo dire in conclusione che la Blue economy rappresenta un nuovo modello di economia sostenibile?
«La Blue economy la dobbiamo declinare come il vero modello di economia sostenibile, al pari di quello che hanno fatto gli altri Paesi, che sono avanti a noi almeno di 20 anni».
Insomma si tratta di un modello di sviluppo economico che offre grandi opportunità per l’Italia, un Paese fortemente legato al mare e alla sua cultura. Per coglierle al meglio, è necessario investire nella ricerca e nell’innovazione, nella formazione e nelle competenze, nella governance e nella cooperazione, nel rispetto dell’ambiente e della biodiversità. Solo così il mare potrà essere una fonte di ricchezza, benessere e sostenibilità per le generazioni presenti e future.