Le banche centrali, dopo anni di politiche accomodanti per stimolare l’inflazione, si sono trovate, soprattutto dopo il Covid, a dover combattere contro il fenomeno opposto. Molte sono le ragioni che hanno portato ad uno sbilanciamento di fondo, sbilanciamento che, come spesso accade, si ripercuote per lo più sull’economia reale. La dimostrazione arriva anche con la familiarità con cui, adesso, il consumatore tratta termini come, appunto, inflazione, deflazione e iperinflazione. Ma cosa sta succedendo nello specifico? A rispondere è Francesco Megna Esperto di Finanza ed Economia
Inflazione, deflazione, stagflazione, iperinflazione, cosa sono, quali sono le differenze?
«L’inflazione è l’aumento generalizzato dei prezzi dei beni, quindi cibo, energia elettrica, carburanti e anche dei servizi, banalmente un taglio di capelli, biglietto del treno, eccetera, eccetera, eccetera. Quindi l’inflazione non riguarda il prezzo di singoli prodotti, ma interessa molti beni e servizi, quindi l’aumento dei prezzi diminuisce la quantità di beni e servizi che possiamo acquistare con i nostri soldi. Per questo si dice che l’inflazione riduce il valore della moneta nel tempo. Come misurare l’inflazione? Non è facile, perché si deve cogliere un aumento dei prezzi generalizzato, cioè riferito a un ampio numero di beni e servizi rappresentativi delle abitudini di consumo della popolazione. Per questo motivo l’inflazione si misura attraverso la costruzione di un indice dei prezzi al consumo, l’IPC, una media dei prezzi di un insieme di beni e servizi chiamato paniere, che sarebbe il cestino della spesa di noi italiani, in poche parole. Poi la media tiene conto dell’importanza dei singoli prodotti e servizi sul totale della spesa e la variazione dell’indice misura la variazione generalizzata dei prezzi, cioè l’inflazione in caso di aumento o la deflazione in caso di diminuzione. Cosa è la deflazione? Con la deflazione si indica con il termine, in macroeconomia soprattutto, un calo del livello generale dei prezzi. La deflazione è dunque l’opposto della ben più nota inflazione, ossia il processo di graduale incremento dei prezzi. In molti casi si assiste soltanto a un rallentamento dell’inflazione, ossia una diminuzione del tasso di crescita del livello generale dei prezzi. Quindi si tratta di un terzo fenomeno che prende il nome di disinflazione. La deflazione è propriamente detta in genere un fenomeno negativo, ma esistono tipi di deflazione positiva e aspetti favorevoli della deflazione. Quali sono le conseguenze della deflazione? Una flessione del livello generale dei prezzi, molto spesso da una situazione recessiva, ossia di crescita negativa, in cui la domanda di beni e servizi, quella che noi chiamiamo domanda aggregata per intenderci, si contrae, la spesa di persone e aziende in altri termini si riduce. Questo spinge la società a cercare di vendere i propri prodotti a prezzi inferiori, nella speranza di stimolare la domanda e una risposta dei consumatori. Di conseguenza le società vendono a un prezzo minore i propri prodotti e quindi registrano una diminuzione del fatturato. Con la stagflazione si intende una fase dell’economia in cui sono presenti contemporaneamente ondate inflazionistiche e stagnazione economica, ovvero la mancata crescita del prodotto interno lordo o PIL. L’aumento generalizzato dei prezzi porta a una diminuzione del potere d’acquisto dei consumatori. A questo si aggiunge una situazione in cui la produzione e il PIL crescono e sono poco oppure sono ferme addirittura. Questo porta a un rallentamento generale dell’economia. Tra le conseguenze più importanti e significative di questa condizione è anche l’incremento del tasso di disoccupazione. E infine l’iperinflazione che indica una situazione di inflazione particolarmente elevata. Tanto da indurre i consumatori a usare addirittura la valuta estera. Quindi secondo i principi contabili internazionali si parla di iperinflazione quando uno Stato tende a fissare prezzi in valuta estera e quando il livello dei prezzi è raddoppiato nell’arco di un triennio».
Dopo un periodo di bassa inflazione ora le banche centrali si sono trovate a dover combattere con il fenomeno opposto ovvero l’alta inflazione. Per quale motivo c’è stato questo cambio di rotta?
«Diciamo che 3-4 anni fa nel 2021 ci siamo ritrovati con un’inflazione veramente elevata negli Stati Uniti. Basti pensare che l’inflazione sui beni alimentari ha raggiunto il 10% nel maggio del 2021 mentre nell’Eurozona era intorno al 9%. Tant’ è che la Fed aveva dichiarato ai tempi che era un aumento transitorio dovuto alle sfide generate dalla pandemia e alla forza di domanda dei consumatori. Anche negli Stati Uniti i prezzi alimentari sono aumentati in modo più generalizzato tra le varie categorie il che ha indicato una pressione inflazionistica in generale dell’economia. In poche parole l’inflazione è aumentata più rapidamente negli Stati Uniti rispetto all’Eurozona a causa della differenza nella ripresa economica dopo la pandemia di Covid-19. Tuttavia ci sono stati già allora alcuni segnali che indicavano che l’inflazione stava lentamente cominciando a rallentare. Poi ci sono le conseguenze sulle varie categorie. Ad esempio l’inflazione ha colpito più gli oli vegetali e gli altri grassi nell’Eurozona e il tasso di inflazione annuale per grassi e oli è stato addirittura del 26% a maggio 2021 mentre negli Stati Uniti del 17%. Da noi chiaramente in Europa c’è stata la pressione inflazionistica dovuta alla guerra in Ucraina, ai prezzi dell’energia che sono aumentati chiaramente a livello globale, anche se l’Europa ha subito un impatto più grave a causa della maggiore esposizione economica alla Russia ovviamente. Per cui un’inflazione più affermata negli Stati Uniti proprio dovuto ad un’economia diversa rispetto alla nostra. Noi abbiamo pagato molto l’inflazione derivata dalla guerra in Ucraina e quindi anche dall’esplosione dei prezzi dell’energia, soprattutto per le aziende che hanno visto nelle bollette dei prezzi esorbitanti».
Quali sono le dinamiche di fondo che regolano l’andamento delle inflazioni e quali le cause?
«Quando un bene o un servizio da parte delle persone aumenta e supera la quantità offerta, il prezzo cresce, quindi le persone sono disposte a pagare di più pur di ottenere ciò di cui hanno bisogno. Quindi se applichiamo questo ragionamento all’insieme dei beni e servizi inseriti nel paniere dell’Istat, l’aumento della domanda da parte dei cittadini si può tradurre in inflazione. In questo caso si parla di inflazione da domanda che significa che in quel momento la richiesta di beni e servizi da parte dei consumatori supera la quantità offerta sul mercato. Quindi l’eccesso di domanda sull’offerta a volte può essere causato da una riduzione improvvisa della quantità prodotta, mentre l’aumento dei prezzi può generarsi anche nel caso di un aumento dei costi di produzione, in questi casi si parla di inflazione da offerta. La quantità di beni e servizi, in questo caso, che desiderano acquistare le persone non cambia, ma si riduce la capacità produttiva e aumentano i costi. Questo può avvenire a causa di diversi fattori come ad esempio un evento inatteso, improvviso che rende difficile l’approvvigionamento e la produzione di beni, ma anche da una pandemia, come già c’è stato, o una guerra, o per l’aumento dei costi delle materie prime come il petrolio. Poi c’è anche l’inflazione da profitti, quindi le aziende, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo, due anni, hanno generato dei profitti importanti, quindi immesso moneta sul mercato che ha contribuito ad un riscaldamento di inflazione. Quindi, in sintesi, inflazione da domanda, da offerta e da profitti».
Gli ultimi dati pubblicati parlano di un’inflazione che in Turchia resta sopra il 50%, in Argentina addirittura oltre il 209%, negli Stati Uniti ci si limita al 2,4%, mentre nell’Eurozona la stima Flash di Eurostat parla del 2%, in Svizzera si rischia addirittura la deflazione. Come spiegare queste differenze abissali tra una nazione e l’altra?
«Le economie citate all’inizio sono economie in un certo senso “allo sbando”. Basti pensare all’andamento della lira turca e alla sua svalutazione (e la Turchia chiedeva addirittura di entrare in Europa). Le valute periferiche sono crollate nel post-Covid. Si tratta di economie che lavorano molto con il dollaro e che commercializzano con l’estero. In questo caso si pensi all’Argentina. A volte si tratta di economie che hanno un’industria pari a zero, questo spiega il perché di un’inflazione così elevata. Mentre invece economie in salute, come le ultime citate, chiaramente giustificano un’inflazione molto più contenuta, in questo caso con l’obiettivo raggiungibile nel medio termine del 8%».
Qual è il ruolo delle banche centrali nella lotta all’inflazione e quali sono i tempi e i fattori che possono accelerare o rallentare l’andamento dell’inflazione?
«Le leve che hanno le banche centrali sono soprattutto quelle dei tassi di interesse, quindi inflazione elevata. In questo caso le banche tendono ad aumentare i tassi di interesse con lo scopo di frenare la divulgazione di moneta. All’opposto invece con l’inflazione a ribasso, le banche centrali abbassano i tassi di interesse con l’obiettivo di accompagnare le economie ad un’inflazione molto più contenuta (solitamente il 2%). Poi vi è anche l’immissione o il ritiro di valuta. Quindi in sintesi le banche centrali hanno questi due strumenti, tassi di interesse e denaro da immettere o da ritirare sul mercato».
Quali sono le conseguenze più importanti dell’inflazione nell’economia reale?
«Certo, un rialzo dei tassi di interesse, quindi un’inflazione elevata, è un ostacolo soprattutto per l’economia, pensando solamente alle imprese. Le imprese infatti con un’inflazione elevata evitano di investire o spostano gli investimenti più avanti nel tempo. Ciò significa non progredire, non diversificare proprio il business, ridurre anche a volte anche la produzione, questo danneggia anche l’economia. Un’inflazione elevata vuol dire anche un aumento dei prezzi, vuol dire che la gente tende a spendere di meno. Paradossalmente aumenta il risparmio, come è aumentato adesso del 10% rispetto al 2022».
Di conseguenza, conclude Megna, la gente accantona soldi con l’auspicio di poterli spendere in tempi migliori.