La CSRD – Corporate Sustainability Reporting Directive, appena entrata in vigore, rappresenta una rivoluzione per le imprese. In Italia sono 4.500 le aziende che rientrano nella rendicontazione obbligatoria ai sensi della nuova normativa. Il problema è che molte di loro sono ancora indietro sul fronte della sostenibilità e si diffonde sempre di più nel nostro Paese il fenomeno della “sustainability washing”, una sostenibilità di facciata finalizzata ad ingannare i consumatori.
ConsumerLab, centro studi specializzato in sostenibilità, in collaborazione col Centro Studi Americani ha realizzato il rapporto “Index Future Respect” ed i dati che emergono sono piuttosto allarmanti. In media solo l’11,7% delle imprese pubblica un bilancio di sostenibilità, 446 sulle 3.814 analizzate. Mentre lato consumatori un italiano su cinque è convinto che la sostenibilità sia tendenzialmente una montatura per aumentare i prezzi o incensare i prodotti.
In Italia si assiste ad una arretratezza preoccupante, con la maggior parte delle imprese che non ha compreso le opportunità dell’evoluzione sostenibile e i relativi benefici per la competitività. Di questo abbiamo parlato con il presidente di ConsumerLab, Francesco Tamburella.
Le imprese italiane ancora molto indietro sul fronte della sostenibilità e si diffonde sempre di più nel nostro Paese il fenomeno della “sustainability washing”. Mi spiega esattamente di cosa si tratta e quali sono le pratiche più diffuse?
«Ancora oggi quasi tutte le aziende, consapevoli o no, adottano strategie di comunicazione con tratti fuorvianti o ingannevoli, omissivi o vaghi, in tema di sostenibilità. Occorre contrastare questa problematica per garantire agli acquirenti informazioni attendibili, comparabili e verificabili, in tal modo permettendo loro di prendere decisioni più sostenibili e ridurre il rischio di un marketing atto a disorientare o, meglio, orientare in maniera alterata. Oggi non c’è solo il greenwashing a carico dell’ambiente; ci sono almeno una ventina di washing per le asserzioni sociali, economiche, gestionali, comportamentali da equiparare a quelle ambientali. La pressione del marketing ha reso necessaria, oltre alla maggiore consapevolezza dei consumatori, l’introduzione di regole europee, chiare e puntuali, per comunicare in maniera corretta, trasparente e integrata, le informazioni relative alle questioni di sostenibilità.
Ecco un elenco delle pratiche maggiormente diffuse:
- ACADEMY WASHING: vestire o travestire ordinari corsi di formazione organizzati dall’azienda spacciati come qualificazione superiore dei dipendenti e per favorire la loro crescita personale, mentre in effetti si tratta di accelerare l’inserimento nel contesto produttivo interno.
- BLACKWASHING: utilizzare personaggi estranei al contesto e al contenuto per forzarne l’interpretazione verso una direzione alterata.
- BLUEWASHING: vantarsi di attività inesistenti o irrisorie a favore delle parti “blu” del pianeta e gli organismi che le abitano: oceano, mari, fiumi, laghi. (Complementare al greenwashing).
- CARBONWASHING: diffondere affermazioni fuorvianti o infondate, anche parziali o suggestive sui propri impatti o iniziative in materia di emissioni di carbonio.
- DIVERTSITY WHASHING: affermare dichiarazioni o attività superficiali senza adottare misure significative, concrete ed efficaci, per sostenere e promuovere la diversità, l’equità, l’accessibilità.
- DNAWASHING: il primo washing è quello di decantare il DNA dell’azienda come congenitamente dedito allo sviluppo sostenibile. Il claim del capitalismo, anche moderato, è business of business is business.
- FAMILY WASHING: presentarsi come azienda-famiglia attenta e impegnata per il benessere dei dipendenti e all’equilibrio tra vita lavorativa e privata mentre trascura la salute reale dell’ambiente operativo e non offre particolare coinvolgimento e benefit.
- FUFFA WASHING: riempire di chiacchiere e dichiarazioni generiche i propri dépliant o le proprie rendicontazioni, senza specificare numeri e fatti dell’attività. La prolissità e l’autoreferenzialità sono i pilastri di questa pratica. La fumosità e l’inconcludenza ne sono il cemento.
- FUTUREWASHING: proporsi come proiettati in un programma di sviluppo sostenibile senza specificare tappe e definire tempi, metodi, problemi e soluzioni.
- GREENWASHING: l’attività o la pratica di far sembrare un prodotto, una politica, un’attività, ecc. più rispettosi o meno dannosi per l’ambiente di quanto non siano in realtà.
- PHILANTHROPY WASHING: dare spazio ad attività di aiuto economico e funzionale a favore delle debolezze sociali con grande enfasi quando in effetti le somme impegnate sono irrisorie e no dichiarate, non documentate.
- PINKWASHING: mistificare l’impegno a favore delle donne e delle comunità LGBTQIA+. Inoltre, mostrarsi allineati alle esigenze femminili come maschera per nascondere e sorvolare le controversie all’interno della propria attività.
- PURPOSE WASHING: definire piani di comunicazione d’impresa (autoreferenziali e ambigui) che forzano un obiettivo impegnato e una ragion d’essere fascinosa, per aspirare ad una reputazione da convertire in una fiducia immeritata.
- PURPLEWASHING: fare appello ai diritti delle donne e al femminismo per distogliere l’attenzione dalle proprie pratiche indifferenti se non dannose; proclamare il proprio sostegno all’uguaglianza di genere o ai diritti delle donne, senza intraprendere azioni concrete o significative verso questa causa, limitandosi al massimo a posizioni di facciata.
- RAINBOWWASHING: manifestare sostegno di facciata alla comunità LGBTQ+, ad esempio aggiungendo i colori dell’arcobaleno ai propri materiali di marketing durante ”eventi Pride”, senza svolgere effettivamente un lavoro sostanziale che aiuti i membri della comunità.
- REDWASHING: si distingue dal greenwashing, perché riguarda questioni sociali presentandosi progressista, egualitario e integro nell’intento di qualificare impropriamente pubbliche relazioni e conseguire maggiore profitto.
- SHAREWASHING: fare appello alle idee di “condivisione” e di comunità per vendere prodotti o servizi, in un modo da coprire la natura commerciale e il suo scopo di lucro. Il principio fondamentale della condivisione dovrebbe collegare le comunità per contribuire all’uso ragionevole delle risorse.
- SOCIALWASHING: far sembrare un’azienda più socialmente consapevole, responsabile e generosa, di quanto non sia. Avviene quando le aziende cercano di nascondere il proprio impatto sociale negativo promuovendosi come sostenibili con campagne pubblicitarie e claim fuorvianti.
- SPORTSWASHING: utilizzare, senza interagire, lo sport per migliorare la propria reputazione, distogliendo l’attenzione da altre attività negative in cui è coinvolta, in particolare relative al benessere dei dipendenti.
- STAKEHOLDERWASHING: dichiararsi attenti alla catena del valore, mentre, in pratica non si contribuisce alla crescita delle imprese partecipanti, non si rispettano i tempi di pagamento, i giusti margini di profitto, la chiarezza dei contratti e dei codici etici.
- WHITEWASHING: occultare la verità per proteggere o migliorare la reputazione di enti, aziende, prodotti. Oppure utilizzare solo attori, modelli o interpreti bianchi; in particolare la pratica di utilizzare un attore bianco per interpretare un personaggio che non è bianco.
- WOKEWASHING: Woke assume qui una connotazione negativa in quanto sposa pubblicamente una moralità politicamente corretta per apparire distinto e alla moda. Più estensivamente è una forma di attivismo performativo in cui le aziende dimostrano il loro sostegno a una causa sociale attraverso il marketing e allo stesso tempo continuano a danneggiare le comunità che “difendono”».
Perché le aziende non sono corrette? Questione di costi, di superficialità?
«Un fatto assolutamente culturale; ci vuole un bagno di realismo pragmatico e di critica al politically correct, bipolarizzato tra negazione ed estremismo. Finché la comunicazione divulga la sostenibilità con ipocrisia e qualunquismo il senso rimarrà incompreso e deluderà le aspettative. Troppe parole e poca pratica si affogano in direttive europee sadiche che obbligano i Report ad arrangiarsi. Ancora oggi, il 57% dei cittadini non conosce gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, benché in sei anni tale percentuale sia diminuita del 22% (era il 79%)».

Francesco Tamburella-presidente ConsumerLab (foto ufficio stampa)
Quali ripercussioni negative comporta una diffusione estesa del fenomeno?
«Neanche un decimo dei Consumatori preferisce consapevolmente prodotti di imprese sostenibili. Addirittura, un consumatore su cinque crede che la sostenibilità sia tendenzialmente uno stratagemma per gonfiare i prezzi o celebrare i prodotti. Persino i giovani – quella GenZ che incarna concretamente il futuro – sono attenti ai criteri di sostenibilità nello stile di vita, più a parole che nei fatti: solo uno su quattordici rispetta correttamente detti criteri di sostenibilità nelle scelte di acquisto».
In Italia quanto è diffuso il fenomeno? Mi fa un quadro generale?
«Nessun Bilancio di Sostenibilità è indenne dal washnig in genere, vuoi per autoreferenzialità, vuoi per incompetenza, vuoi per autocelebrazione a tutti i costi. È vero che i costi dello sviluppo sostenibile non devono appesantire l’equilibrio dei conti; è, però, altrettanto vero che senza sviluppo sostenibile i conti domani avranno aggravi e conseguenze collaterali che metteranno l’attività fuori mercato. Quindi equilibrio, buon senso e positività».
Come siamo messi rispetto agli altri Paesi europei?
«La Commissione ha constatato che le asserzioni ambientali esaminate nell’UE erano per il 53 % vaghe, ingannevoli o infondate e che il 40 % di esse non era comprovato. È il momento di recuperare i ritardi e le mancanze che hanno determinato un’insufficiente sensibilità del pubblico sui temi che salvaguardano il futuro».
Perché è importante stilare un Report della Sostenibilità in ambito aziendale?
«La sostenibilità non è un’ideologia e non ancora una garanzia di reputazione. È l’obiettivo di allineare la natura al benessere e il benessere all’equità per il FUTURE RESPECT, che può riorganizzare la vita di tutti con un obiettivo unico e unificante. Un obiettivo universale per evolvere il modo di consumare, produrre, lavorare e governare. Può rappresentare una legge universale valida in ogni luogo del pianeta, per ogni cultura, per ogni economia, per le diverse religioni».
Lato consumatore e lato impresa: come invertire la rotta e rendere tutti davvero più sostenibili?
«Va affermato il potere della consapevolezza conseguente a una comunicazione su misura, accessibile e coinvolgente attraverso Report mirati, prima di tutto, al cittadino, consumatore e utente. Lo sviluppo sostenibile parte dal basso, dalle piccole azioni quotidiane di ogni singolo cittadino che, con le sue scelte di acquisto consapevoli, può essere determinante. Tema generale è capire perché non è ancora ben chiaro che l’evoluzione sostenibile è la madre di tutte le riforme; le imprese stentano a comprendere che l’evoluzione sostenibile è conveniente, induce innovazione produttiva e gestionale, favorisce la reputazione, potenzia l’energia per la crescita. Insomma, la sostenibilità rende l’azienda resiliente».
L’orientamento è ormai chiaro: nel tempo, un Report di Sostenibilità sarà necessario per quelle imprese che hanno obiettivi solidi di crescita, che non vogliono rimanere indietro, ai limiti del mercato, anzi, fuori dal mercato. Il futuro delle imprese che non credono negli obiettivi di sviluppo sostenibile e nelle strategie europee del Green Deal riserva certamente un percorso sempre più stretto, obsoleto e inaffidabile. Per Tamburella vi è la chiara necessità di un quadro di riferimento per la rendicontazione solida e accessibile, accompagnato da pratiche efficaci che consentano di evitare fenomeni distorsivi, come appunto quello del sustainability washing.