L’onda lunga della Brexit continua a far sentire i suoi effetti su Londra. Molte aziende, infatti, stanno guardando altrove anche per la quotazione delle proprie azioni. Una fotografia, quella del mercato inglese e, più in generale, dell’economia, che appare ancora sfocata a 4 anni dalla conclusione del complesso processo di addio all’UE. A fare il punto della situazione è Alessandro Bergonzi Financial Markets Content Specialist di Investing.com.
A settembre Burberry dava l’addio alla Borsa di Londra, il primo di una lunga serie di addii che ha visto l’ultimo esempio con JustEat. La causa principale sono i costi ma è anche la sola?
«Sicuramente i costi rappresentano il fattore principale nel portare al delisting le aziende che hanno già problemi di ricavi. Nel caso di Burberry in realtà si è trattata di una retrocessione dal listino principale (Ftse 100) al Ftse 250, dovuta al crollo delle vendite che ha afflitto in generale il settore della moda dopo il calo della domanda cinese. Ma sicuramente il contesto economico ha giocato la sua parte nella diminuzione delle Ipo e nell’aumento degli addii. Guardando alla Borsa Italiana, ad esempio, per le stesse ragioni è saltata la quotazione delle luxury sneaker di Golden Goose. C’è poi il fatto che ci sono mercati decisamente più attraenti. Per un’azienda che si deve quotare la scelta tra la cara e vecchia Europa e Wall Street è scontata. Il mercato Usa offre una maggiore liquidità, un bacino di investitori più ampio e una regolamentazione più favorevole».
Quanto ha inciso la Brexit o, meglio, le conseguenze della Brexit nelle decisioni delle aziende di guardare altrove?
«La Brexit ha alimentato incertezze normative e logistiche, riducendo il fascino della City come hub finanziario. Per un paio d’anni Londra ha anche perso lo scettro di primo mercato europeo che è finito nelle mani di Parigi. Salvo riprenderselo in seguito all’ultima crisi politica che sta facendo scappare gli investitori dalla Francia. Insomma, la separazione dal mercato unico e l’introduzione di barriere commerciali non hanno certo favorito gli inglesi. D’altra parte, però, nelle Borse dei Paesi Ue le cose non vanno tanto meglio. Basti pensare che i mercati di Italia (0,8 triliardi) e Germania (2,5 triliardi) insieme sono inferiori alla capitalizzazione di mercato della sola Nvidia che supera i 3,3 triliardi. Più innovazione e semplificazione: è normale che i grandi capitali siano attratti dagli Stati Uniti».
Tra le tappe fondamentali della Brexit sono da ricordare, senza dubbio, il 23 giugno 2016, giorno del referendum e il 31 gennaio 2020 giorno di uscita ufficiale di Londra dall’Europa. L’iter di questa transazione si è effettivamente concluso?
«La Brexit è stata formalmente completata nel 2020, sono ormai passati quasi 5 anni. Tuttavia, gli effetti dell’uscita dall’Ue e dei nuovi accordi commerciali non si sono ancora esauriti. Il Trade and Cooperation Agreement (TCA) ha segnato una nuova era nelle relazioni tra il Regno Unito e l’Unione Europea, regolando lo scambio di merci senza tariffe e imponendo restrizioni sui servizi e sulla circolazione delle persone. Ma rimangono ancora tanti capitoli aperti. La transizione non è stata lineare e la storia è ancora tutta da scrivere. Spesso emerge la volontà delle parti di rinegoziare gli accordi e più volte si è parlato di passo indietro, ma al momento si tratta solo di una provocazione e non di una reale ipotesi. L’incertezza è costante e aggravata dalle varie crisi politiche affrontate da Londra negli ultimi anni. Ora ci si aspetta che il governo Starmer faccia un po’ di chiarezza. Intanto, la revisione periodica dell’accordo, prevista per il 2025, sarà un momento cruciale per valutare eventuali aggiustamenti».
È possibile fare una fotografia dell’economia inglese in questa fase della transizione?
«In questa fase di transizione post-Brexit l’economia britannica sta vivendo un periodo di sfide e ricomposizione. Non possiamo sapere sul lungo periodo quali saranno gli impatti della Brexit, soprattutto in un mondo in continua evoluzione ma possiamo guardare al passato. Dal 2021 al 2023, il PIL del Regno Unito è cresciuto con un tasso medio annuo del 4,5%, superiore al 3,3% medio dell’Unione Europea. Tuttavia, se nel 2020 i 27 dell’Ue hanno vissuto una contrazione media del 5,8%, in UK c’è stato un crollo economico del 10,3%, legato alla pandemia e aggravato dall’isolamento della Brexit. Probabilmente una maggiore collaborazione con il continente avrebbe aiutato l’isola ad affrontare quella tempesta. Non è detto però che, soprattutto dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca e la sua tendenza a prediligere i trattati bilaterali, la condizione di isolamento non possa giovare alla causa di Downing Street. Intanto, con la strategia “Global Britain” inaugurata da Theresa May, Londra negli ultimi anni sta tentando di ampliare i commerci internazionali e formare nuove alleanze, come avvenuto con l’adesione al partenariato transpacifico (CPTPP), l’accordo commerciale che include tra gli altri Messico, Giappone, Canada e Australia e di cui il Regno Unito è il primo e unico paese europeo a farne parte».
Quali sono stati gli impatti della Brexit sulla sterlina?
«La Brexit ha comportato una significativa e pressoché immediata svalutazione della sterlina rispetto all’euro e al dollaro. Negli anni successivi la moneta inglese ha oscillato parecchio ma non è mai riuscita ad avvicinarsi ai livelli pre-Brexit. Tra pandemia e incertezza politica la sterlina è rimasta costantemente sotto pressione almeno fino al 2023. Poi, una volta archiviata la disastrosa parentesi della premier Lizz Truss, la tendenza si è invertita»
E se proseguirà l’impegno del paese nella riduzione del deficit, conclude Bergonzi, non è escluso che la risalita possa continuare.