«Oggi, con mille euro sei povero, nonostante tu abbia un lavoro. La diminuzione del ceto medio è anche un indebolimento delle fondamenta della democrazia liberale che abbiamo conosciuto dal dopoguerra a oggi nell’Occidente cosiddetto capitalistico».
Così Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro, con una lunga carriera da sindacalista nella FIOM-CGIL, ora presidente dell’associazione Lavoro&Welfare, a proposito della situazione dei lavoratori e dei pensionati in Italia.
Qual è il polso della situazione del lavoro in Italia?
«Sulle statistiche, e dobbiamo dirlo, l’Istat mostra che mai come in questi ultimi anni abbiamo toccato record di occupati. Abbiamo superato, come tutti sanno, la soglia dei 24 milioni di persone. Però, come giustamente indicato anche nell’ultimo rapporto del CNEL, non dobbiamo fermarci al solo dato quantitativo, né alla situazione nazionale, ma parlare di qualità e di contesto europeo. Si può dire che il tasso di occupazione del 60,28% tra coloro che hanno un’età compresa tra i 15 e i 64 anni è il più alto mai registrato in Italia. Ma se consideriamo l’andamento europeo, scopriamo che tutti i Paesi hanno registrato una crescita simile a quella dell’Italia in questi ultimi anni. La verità è che la crescita degli altri Paesi è stata superiore alla nostra. Tant’è che siamo diventati il fanalino di coda. Per fare un esempio: la Spagna ha un tasso di occupazione al 66% e sopra la Spagna ci sono tutti gli altri Paesi, fino ad arrivare alla Germania, che supera abbondantemente il 70%. La media europea è del 70%. E parliamo, appunto, di media. Ora, fatta questa precisazione, c’è un altro dato da esaminare: le differenze nelle condizioni del mercato del lavoro. Sicuramente, in termini di sofferenza, abbiamo l’occupazione femminile – il cui tasso, a marzo, è addirittura sceso rispetto a luglio dell’anno scorso, anche se di pochi decimali di punto – e l’occupazione giovanile. Tra i 15 e i 24 anni, in Italia abbiamo solo il 19% di occupati, a fronte del 50% della Germania. Inoltre, parlando sempre di occupazione femminile, incide anche il tipo di contratto: ad esempio, il part-time riguarda una donna su tre e un uomo su dodici. E non sempre si tratta di una scelta della lavoratrice per conciliare i tempi di vita e di lavoro: in molti casi è un orario imposto dal datore».
È vero che siamo più poveri?
«Sicuramente sì. I dati dell’Ocse ci dicono che, dagli anni ’90 ad oggi, abbiamo registrato una perdita del potere d’acquisto delle retribuzioni pari a tre punti percentuali. Nello stesso arco temporale, Paesi come la Francia e la Germania hanno avuto un aumento superiore al 30%. Negli ultimi anni, poi, con la fiammata inflazionistica, abbiamo perso ulteriormente potere d’acquisto. L’anno scorso c’è stato un parziale recupero grazie al rinnovo dei contratti nazionali, ma non è bastato. Per esempio, nel settore pubblico, gli stanziamenti previsti dal governo per i rinnovi contrattuali non sono sufficienti a coprire l’andamento dell’inflazione. In pratica, c’è una sorta di programmazione della diminuzione del potere d’acquisto. Questo va considerato insieme a un altro aspetto, che emerge da un’indagine della mia associazione, Lavoro&Welfare, curata da Bruno Anastasia: negli ultimi anni si è verificato uno spostamento di ore lavorate e occupazione dai settori industriali, meglio retribuiti, a quelli dei servizi e del terziario, come ristorazione, commercio, pulizie, logistica. Settori con retribuzioni più basse e orari discontinui. Dunque, accanto all’aumento del numero degli occupati, assistiamo anche a una concentrazione nei comparti peggio pagati. In sintesi: più occupati, ma con lavoro di qualità inferiore».
Siamo in grado, anche alla luce delle recenti politiche governative, di delineare una tendenza per il futuro? Perché è questo che ci interessa di più.
«Quando parliamo di perdita del potere d’acquisto del mondo del lavoro, dobbiamo aggiungere anche l’universo dei pensionati, che seguono la stessa sorte. Parliamo del cosiddetto “ceto medio”. Ai miei tempi, negli anni ’70, ’80, ’90, quando ero dirigente della FIOM, gli operai della Fiat alla catena di montaggio erano diventati ceto medio. Oggi li chiamiamo ricchi! Con due milioni di lire di stipendio negli anni ’90, una famiglia di quattro persone riusciva a riscattare il mutuo per la casa in periferia e a pagare le rate dell’auto e degli elettrodomestici. Ci deve preoccupare, e per rimediare servono alcuni interventi simultanei. Il primo: la detassazione, la fiscalizzazione di una quota del cuneo fiscale — ma fatta nel modo giusto, non con i pasticci dell’ultima legge di bilancio, che ha migliorato e peggiorato in modo asincrono le retribuzioni medio-basse. In secondo luogo, servirebbe introdurre gradualmente un salario minimo. In terzo luogo, bisogna fiscalizzare gli aumenti contrattuali quando i contratti vengono rinnovati alla scadenza naturale. Perché incentivare i rinnovi nei tempi giusti significa salvare potere d’acquisto. Se un contratto triennale viene rinnovato dopo sei anni, si perdono risorse in busta paga. Le giuste retribuzioni sono un volano formidabile per un’economia giusta. Mi lasci dire: per un’economia giusta, servono retribuzioni giuste».
Infine, una domanda di politica estera: Trump, i dazi… cosa ne pensa di quello che sta succedendo?
«Penso che, guardando indietro nel tempo, storicizzando gli eventi, siamo alla terza fase dello sviluppo geopolitico mondiale e della sua ridefinizione. La prima fase parte dal 1945, con la fine della Seconda guerra mondiale, e arriva fino al 1980. È la fase dell’espansione delle democrazie liberali. Cadono le dittature in Spagna, Portogallo, Grecia. Aumentano i diritti civili e sociali. Si conquistano il divorzio, l’aborto, si parla di parità uomo-donna. Si amplia la sfera delle libertà civili e sociali. Poi c’è la retromarcia, che parte negli anni ’80: Reagan, Thatcher, il neoliberismo».
Berlusconi… vogliamo dimenticarlo?
«Non dimentichiamolo. La finanza prevale sulla manifattura, la globalizzazione procede senza regole. Questa fase, a sua volta, sembra essere finita con l’avvento di Trump e delle “democrature” nel mondo. Il dazio, infatti, illude di scaricare le tasse sui Paesi vicini, togliendole ai cittadini interni. È un’idea di isolamento, di chiusura, di ricostruzione delle sfere di influenza, di de-globalizzazione dell’economia. Credo che i dazi non solo siano stupidi, ma anche irrealistici. Un controsenso nell’era della globalizzazione. Piuttosto, si tratta di regolare la globalizzazione, pretendendo che tutti i Paesi adottino misure minime comuni: retribuzioni giuste, diritti sociali e civili nelle aree di scambio. Così si evitano effetti di dumping e convenienze basate su salari bassi e sfruttamento del lavoro. Penso che stiamo vivendo una fase di riscrittura degli equilibri geopolitici. Tornare alle sfere di influenza non mi sembra conveniente per nessuno e sicuramente deprime la crescita economica globale. E, inevitabilmente, spinge verso nazionalismi e populismi che fanno male alla democrazia, ai diritti civili e sociali. La storia ce lo insegna».
Sì, la storia ce lo insegna.
«Poi, ovviamente, parliamo giustamente di Ucraina e Russia, di Israele e Palestina, e dimentichiamo quello che capita vicino ai nostri confini. Per esempio in Turchia».
Perché ci fa comodo dimenticare.
(foto Cesare Damiano)