“E poi se ne vanno tutti! Da qua se ne vanno tutti!” cantava Caparezza. Nel 2011. E il trend non è cambiato, anzi. A lanciare l’allarme, o meglio a ribadire lo status quo, è, come sempre, l’Istat: nel 2024 l’Italia ha registrato un nuovo picco nell’esodo dei giovani altamente qualificati. Circa 156 mila cittadini, in prevalenza laureati tra i 25 e i 35 anni, hanno lasciato il Paese. Un dato in crescita del 36% rispetto all’anno precedente, che fotografa un fenomeno sempre più strutturale. Il saldo netto per quella fascia anagrafica è drammaticamente negativo: oltre 97 mila talenti in meno.
Cosa fa la politica
Le istituzioni italiane sembrano aver preso coscienza della gravità della situazione. In Senato, il democratico Francesco Giacobbe ha sostenuto una mozione presentata da Elena Cattaneo con parole nette: «Stiamo assistendo a una silenziosa ma devastante emorragia di talenti. Ogni anno migliaia di ricercatori sono costretti a portare il proprio sapere altrove perché il nostro Paese non offre condizioni di lavoro adeguate». Il senatore ha inoltre definito un “errore gravissimo” l’indebolimento degli incentivi fiscali per chi decide di rientrare: «Avevamo finalmente uno strumento efficace per riportare a casa i nostri migliori cervelli».
Anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha lanciato un monito durante le celebrazioni dei Giorni della Ricerca al Quirinale. «Le nostre risorse destinate alla ricerca sono limitate. Tanti giovani vanno all’estero e vi restano non perché non vorrebbero lavorare in Italia, ma perché qui le condizioni sono meno competitive». Il Capo dello Stato ha poi invitato a superare la logica della fuga, parlando di “circolazione dei talenti”: partire deve essere una scelta, non una necessità.
E al Meeting di Comunione e Liberazione, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha riconosciuto che «i giovani non hanno prospettive di carriera e il lavoro non è adeguatamente retribuito», pur sottolineando che l’Italia resta un Paese “ricco di intelligenza” su cui costruire lo sviluppo futuro.
Perché si emigra
Il fenomeno, in realtà, affonda le radici in un contesto più ampio. Storicamente l’Italia ha vissuto ondate migratorie consistenti, ma oggi a partire non sono più solo le braccia: sono le menti. Tra il 2015 e il 2019, il Nord-Est ha perso l’11,5‰ dei suoi giovani laureati, mentre il Mezzogiorno ha visto andar via oltre 550 mila residenti tra il 2014 e il 2023, con un saldo negativo di circa 150 mila giovani con titoli di studio elevati.
Le motivazioni sono anche economiche. In Italia, un laureato guadagna mediamente 1.384 euro netti al mese, il 61% in meno rispetto a quanto percepito dai coetanei emigrati all’estero. Il tasso di disoccupazione giovanile resta alto, al 17,7%, contro una media europea del 15,2%.
In questo scenario, la scelta del governo di ridurre gli incentivi fiscali per chi rientra ha acceso il dibattito. Lo sconto Irpef è sceso dal 70% al 50%, con l’obiettivo dichiarato di ridurre gli abusi. Tuttavia, secondo molti osservatori, la misura rischia di penalizzare proprio i ricercatori. Come ha ricordato il senatore Mario Borghese (MAIE), su 24.450 rimpatriati nel 2023, solo 1.800 erano impiegati nella ricerca. «Modificare le agevolazioni in senso peggiorativo — ha dichiarato — desta forti perplessità».
L’allarme non è solo politico. La Banca d’Italia ha stimato che, se non si invertirà la tendenza, entro il 2040 il calo del capitale umano potrà tradursi in una perdita potenziale dell’11% del PIL. Dal 2011 al 2023, secondo alcune analisi, il Paese ha già perso oltre 134 miliardi di euro in competenze e investimenti formativi. Una dinamica che incide anche sul piano demografico, accelerando l’invecchiamento della popolazione e mettendo a rischio la tenuta del sistema previdenziale.
Perché il laureato italiano trova fortuna all’estero
Il talento c’è, ed è riconosciuto. Ma troppo spesso varca i confini nazionali per essere davvero valorizzato. Il laureato italiano, all’estero, gode di una considerazione che raramente incontra nel proprio Paese: preparato, flessibile, creativo, spesso ricopre ruoli di rilievo in aziende, università e centri di ricerca in tutta Europa e oltre. Secondo l’ISTAT, nel 2023 erano oltre 130mila i laureati italiani residenti stabilmente all’estero.
All’estero, il laureato italiano è spesso sinonimo di preparazione teorica solida, soprattutto in discipline STEM, umanistiche e tecniche. Nei sistemi accademici anglosassoni, questa profondità è riconosciuta come un punto di forza. A ciò si aggiungono doti personali non trascurabili: flessibilità, spirito di adattamento, attitudine al problem solving, capacità comunicative. Non è un caso che i nostri connazionali si distinguono anche in contesti culturalmente diversi, spesso arrivando a ricoprire posizioni di leadership.
Tra le istituzioni che più contribuiscono a questa buona reputazione, ci sono i politecnici di Milano e Torino, la Bocconi, la Normale di Pisa, la Sapienza di Roma e la Statale di Milano. I laureati in queste università si affermano in settori come la finanza internazionale, la ricerca biomedica, il design industriale e l’ingegneria applicata.
Il valore dei laureati italiani varia a seconda dei settori e dei Paesi di destinazione. In Germania, ad esempio, sono particolarmente ricercati ingegneri, informatici e professionisti sanitari. La Francia punta molto su creatività e competenze scientifiche, mentre nel Regno Unito i nostri connazionali si inseriscono con successo nei circuiti accademici e finanziari. La Svizzera li assorbe soprattutto nel settore sanitario e bancario, e negli Stati Uniti non è raro trovarli in centri d’eccellenza come MIT, Harvard o Google. Anche i Paesi nordici apprezzano i laureati italiani, soprattutto nei campi dell’educazione, della sostenibilità e dell’ingegneria, premiandone il rigore formativo e la capacità di integrarsi in contesti organizzativi avanzati.
Tuttavia, non è tutto oro quel che luccica. Chi assume giovani italiani all’estero segnala alcune lacune: la più ricorrente riguarda la preparazione pratica, spesso ritenuta carente rispetto a quella dei colleghi stranieri. Anche la mancanza di esperienze internazionali pregresse – come tirocini o Erasmus – penalizza i neolaureati, così come una conoscenza non sempre fluente della lingua inglese, che può limitare l’accesso a ruoli qualificati.
L’attrattività del laureato italiano è confermata anche da istituzioni autorevoli. Secondo l’OCSE (2024), i nostri laureati all’estero presentano tassi di occupazione più elevati rispetto alla media europea e risultano sovra-rappresentati nei settori a medio-alta intensità di conoscenza. Il tasso di occupazione dei laureati italiani emigrati tra i 25 e i 39 anni si attesta all’82%, contro il 68% di chi è rimasto in patria (Eurostat). Francesco Profumo, ex ministro dell’Istruzione e oggi presidente della Compagnia di San Paolo, non ha dubbi: «Il mondo ha fame di competenze italiane. Il problema è che l’Italia non è in grado di trattenerle». Un’affermazione che trova eco anche nel Times Higher Education (2023), secondo cui «i laureati italiani sono tra i meglio formati d’Europa, soprattutto nelle discipline scientifiche — ma il mercato del lavoro interno non ne riflette il valore». Nel Regno Unito, ad esempio, il numero di laureati italiani è aumentato del 57% in meno di dieci anni (2014–2023), a conferma di una tendenza consolidata.
In definitiva, il laureato italiano non parte per ambizione fine a sé stessa, ma per necessità. Parte perché trova all’estero quello che in Italia spesso manca: percorsi chiari, meritocrazia, stipendi adeguati, possibilità di crescita. Non sorprende che molti scelgano di rimanere dove hanno costruito una carriera, anche a costo di rinunciare al rientro.
Cosa succede all’estero
Il confronto con l’estero rivela quanto il fenomeno della fuga dei cervelli sia legato alle scelte politiche e ai modelli di sviluppo. Paesi come Germania, Canada e Regno Unito investono stabilmente in ricerca e innovazione, offrendo ambienti accademici attrattivi e percorsi professionali chiari per giovani e studiosi internazionali. La Germania, ad esempio, ha potenziato i propri programmi di accoglienza per ricercatori stranieri, rendendo più semplice l’accesso ai finanziamenti e alla carriera universitaria. Il Canada ha istituito fondi specifici per il rientro dei propri cittadini altamente qualificati, mentre la Francia ha introdotto contratti di lungo periodo e incentivi mirati per evitare l’esodo post-laurea.
Anche alcuni Paesi dell’Europa dell’Est, un tempo grandi esportatori di competenze, stanno invertendo la rotta grazie a piani nazionali che uniscono investimenti tecnologici, politiche di rientro e valorizzazione dei giovani nel pubblico impiego. Il successo di questi modelli dimostra che contrastare l’esodo dei talenti non è un’utopia, ma una questione di visione strategica e volontà politica.
L’Italia può e deve imparare da queste esperienze: perché trattenere e attrarre talenti non è solo una sfida economica, ma il fondamento per costruire un futuro competitivo, equo e innovativo. La fuga dei cervelli non è inevitabile. Ma serve un cambio di passo, ora.
Cosa fare?
Il sistema Paese, tuttavia, non può permettersi di perdere ogni anno migliaia di giovani qualificati. Serve una strategia nazionale per valorizzare il capitale umano, investire in ricerca, rendere attrattive le carriere accademiche e professionali anche entro i confini italiani. Trattenere i migliori non è solo una questione di giustizia generazionale: è un investimento sul futuro. Servono soluzioni strutturali.
Tra le priorità indicate da diversi attori istituzionali vi è l’aumento stabile dei fondi alla ricerca, superando una logica di finanziamenti irregolari. Sul piano fiscale, andrebbero mantenute misure specifiche per accademici e ricercatori, distinguendo tra profili ad alto valore strategico e casi meno qualificati. Altro nodo è quello salariale: come sottolineato anche dal ministro Giorgetti, è necessario rendere più attrattive le retribuzioni e le carriere.
Fondamentale sarà anche rafforzare le infrastrutture universitarie e incentivare la collaborazione tra pubblico e privato nella ricerca, oltre ad avviare una vera stagione di mobilità e meritocrazia. Non si tratta solo di fermare chi parte, ma di creare le condizioni perché anche chi è già andato possa tornare, e perché nuovi talenti scelgano l’Italia come destinazione.
La consapevolezza istituzionale sembra esserci. Ma le dichiarazioni devono ora tradursi in impegni concreti e duraturi. Il rilancio del Paese passa dalla valorizzazione del suo capitale umano. E la posta in gioco non è solo economica: è culturale, civile, intergenerazionale.
(foto ANSA)