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Economia

Iran e Stati Uniti, una lunga scia di attacchi

Giulia Guidi
23 Giugno 2025
Iran e Stati Uniti, una lunga scia di attacchi
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Le conseguenze economiche di un conflitto silenzioso

Non è un conflitto dichiarato, eppure da decenni quello tra Stati Uniti e Iran somiglia sempre di più a una guerra a bassa intensità che si combatte a colpi di raid mirati, sanzioni economiche, sabotaggi e tensioni sul filo del diritto internazionale. Un conflitto che, ogni volta che si accende, non resta mai confinato alla regione mediorientale: ha ripercussioni globali, soprattutto sui mercati dell’energia e sulla stabilità economica internazionale.

Dai raid alle piattaforme agli attacchi di oggi

Il primo colpo risale agli anni ’80, in piena guerra Iran-Iraq, quando gli Stati Uniti, intervenuti per proteggere il traffico navale nel Golfo Persico, distrussero alcune piattaforme petrolifere iraniane. Era il 1987, e quella che sembrava una ritorsione limitata prese il nome di “Operazione Nimble Archer”. L’anno successivo, un’escalation ancora più significativa con l’“Operazione Praying Mantis”, in risposta a una mina navale iraniana che aveva colpito una fregata americana.

Da allora, le fasi di tensione si sono moltiplicate. Uno degli episodi più traumatici risale al 1988, quando l’incrociatore USS Vincennes abbatté per errore un Airbus iraniano con 290 civili a bordo. Da lì in avanti, la diffidenza non si è mai placata, e ha trovato nuove forme nei decenni successivi: dalla “massima pressione” esercitata dall’amministrazione Trump dopo il ritiro dal trattato sul nucleare (JCPOA) nel 2018, fino agli attacchi mirati alle infrastrutture nucleari e militari iraniane negli ultimi mesi.

L’ultimo colpo, almeno finora, è arrivato nei giorni scorsi: un’ondata di bombardamenti statunitensi ha colpito impianti sensibili a Natanz, Isfahan e Fordow. Aerei stealth, missili bunker-buster, e poi l’annuncio di Washington: “Obiettivi neutralizzati”.

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Gli effetti sui mercati: il petrolio torna protagonista

Il risultato, prevedibile ma non per questo meno grave, è stato un immediato surriscaldamento dei mercati. Il prezzo del petrolio Brent è schizzato oltre gli 80 dollari al barile. Il timore, più che fondato, è che l’Iran possa reagire bloccando o rallentando il traffico nello Stretto di Hormuz, da cui transita circa un quinto del greggio mondiale.

Gli analisti sono cauti, ma i modelli previsionali parlano chiaro: se la tensione dovesse permanere o degenerare, i prezzi potrebbero arrivare anche a 120 o 130 dollari al barile. Le conseguenze sarebbero pesanti, con una nuova spinta all’inflazione e un rallentamento del PIL globale stimato fino a 0,8 punti percentuali. Già oggi, con il barile a livelli record, le economie più esposte – come quelle europee – iniziano a sentire il contraccolpo in termini di costi energetici e potere d’acquisto.

Un equilibrio fragile: la minaccia (e il bluff) di Hormuz

A rendere tutto ancora più delicato è lo scenario geopolitico. In Iran, il Parlamento ha recentemente votato a favore della chiusura dello Stretto di Hormuz in caso di nuovi attacchi, anche se la decisione definitiva spetta alla Guida Suprema. Al momento, si tratta più di un messaggio politico che di una scelta operativa. Ma basta la minaccia per far impennare i premi di rischio sulle rotte energetiche.

Il rischio, tuttavia, non è solo per l’Occidente. L’Iran stesso ha molto da perdere. Un blocco di Hormuz colpirebbe anche le sue esportazioni verso Cina, India e Turchia – Paesi che, nonostante le sanzioni, continuano a comprare petrolio iraniano in condizioni favorevoli. E se è vero che un prezzo alto del greggio può, nel breve periodo, far incassare più valuta pregiata a Teheran, è altrettanto vero che un isolamento prolungato taglierebbe fuori il Paese da infrastrutture e investimenti cruciali.

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Sanzioni e resilienza: come l’Iran resta in piedi

Nonostante tutto, l’Iran resiste. Le sanzioni americane – che hanno colpito l’export di petrolio, le banche, le spedizioni – hanno sicuramente indebolito l’economia, ma non l’hanno piegata. Il Paese ha imparato a muoversi nell’ombra: triangolazioni commerciali, moneta digitale, accordi bilaterali con la Cina e rapporti più stretti con Mosca lo tengono in piedi. Le stime parlano di almeno 50 miliardi di dollari di export energetico nel 2024, in gran parte “non dichiarato”.

In più, l’aumento del prezzo del petrolio non fa che rafforzare le entrate statali, anche se a discapito della popolazione, che subisce gli effetti dell’inflazione, della scarsità di beni e dell’instabilità cronica del rial.

Il prezzo di una crisi globale

La storia degli attacchi americani all’Iran non è solo un capitolo di geopolitica. È un racconto che tocca il portafoglio di milioni di persone nel mondo. Ogni raid, ogni sabotaggio, ogni tensione diplomatica si traduce in un rincaro dei carburanti, in un’impennata dell’inflazione, in una maggiore incertezza per imprese e famiglie.

Il paradosso è che né l’Iran né gli Stati Uniti sembrano voler davvero un conflitto su vasta scala. Eppure, ogni episodio porta il mondo un passo più vicino a una crisi energetica globale. Per questo, più che i missili, oggi sono i mercati a tenere il fiato sospeso.

(foto ANSA)

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