Dai dieci scellini settimanali dei pionieri del football inglese agli otto anni di contratto firmabili oggi in Serie A, il viaggio degli stipendi nel calcio è anche la storia dell’evoluzione economica di un intero sistema. Una storia fatta di contratti, rivoluzioni giuridiche, diritti televisivi e divari crescenti, culminata negli ultimi giorni con una misura che potrebbe cambiare le regole del gioco anche fuori dal campo.
Il decreto che allunga il tempo
Il 20 giugno 2025, il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge che porta da cinque a otto anni la durata massima di un contratto sportivo. Una norma che mira a consentire ai club di ammortizzare meglio i costi degli acquisti plurimilionari, spalmandoli su un periodo più lungo. Non è un caso che la misura arrivi in un momento di particolare attenzione sulla sostenibilità economica del calcio italiano. Ma non mancano le perplessità: l’UEFA, ad esempio, continuerà a considerare valido un tetto di cinque anni per i suoi calcoli sul Fair Play Finanziario, e c’è il rischio che i calciatori si ritrovino legati a lungo termine a società che nel frattempo cambiano obiettivi o dirigenza.
Dalle maglie in lana agli stipendi da leggenda
All’inizio del Novecento, il calcio era ancora un gioco per appassionati con un secondo lavoro. In Inghilterra, primo Paese ad avere un campionato professionistico, i giocatori ricevevano rimborsi spese. Nel 1891 venne fissato un tetto massimo: 4 sterline a settimana. Un salario sì superiore alla media operaia, ma ancora lontano dai numeri attuali.
In Italia, il professionismo prende piede più lentamente. Negli anni ’30 e ’40, i calciatori di Serie A guadagnavano cifre comunque molto superiori a quelle dei lavoratori comuni, ma il divario non era ancora abissale. Raimundo Orsi, fuoriclasse della Juventus negli anni Trenta, percepiva 8.000 lire al mese e una Fiat come benefit. Un operaio, all’epoca, guadagnava circa 300 lire.
È dagli anni Sessanta che il professionismo inizia davvero a imporsi. In Inghilterra il tetto salariale viene abolito nel 1961. In Italia, Gianni Rivera, bandiera del Milan, arriva a percepire 70 milioni di lire l’anno negli anni Settanta, quando il reddito annuo medio di un operaio si aggirava sui 4 milioni: il rapporto era già di 1 a 17.
Il colpo di scena: la sentenza Bosman
La svolta arriva nel 1995, quando la Corte di Giustizia europea emette la storica sentenza Bosman. Da quel momento, i calciatori in scadenza possono trasferirsi gratuitamente a un altro club, senza più vincoli. Le società, per non perdere a zero i loro talenti, iniziano a offrire contratti più lunghi e stipendi più alti. Il risultato è un’inflazione salariale senza precedenti.
Nel 2001, uno stipendio medio lordo in Serie A era di circa 2,15 miliardi di lire (più di un milione di euro), mentre quello di un lavoratore dipendente si aggirava sui 16 milioni di lire. Il rapporto sfiorava quota 130 a 1.
Il calcio dei miliardari
Oggi, la forbice si è allargata in modo esponenziale. I top player come Cristiano Ronaldo (nella foto), Lionel Messi o Erling Haaland percepiscono tra i 20 e i 50 milioni di euro netti all’anno, esclusi bonus e diritti d’immagine. In Premier League, lo stipendio medio è superiore ai 3 milioni di euro, mentre in Serie A si attesta intorno ai 900.000 euro netti, ma con una forte polarizzazione: il 10% dei giocatori guadagna più di 1,7 milioni, mentre molti altri restano sotto la soglia dei 100.000.
Seconda e terza serie: mondi paralleli
Se la vetta del calcio professionistico brilla di contratti multimilionari, la realtà delle seconde e terze divisioni è molto diversa, con retribuzioni spesso in linea con il ceto medio, se non inferiori.
In Serie B italiana lo stipendio medio annuo si aggira attorno ai 130.000–150.000 euro netti (Fonte: AIC, FIGC 2023), ma in molti casi si scende sotto i 50.000, soprattutto per i più giovani o i contratti brevi. In Ligue 2 francese, la media è leggermente superiore: circa 120.000 euro lordi annui, con netti più contenuti a seconda del regime fiscale. In Championship (seconda serie inglese), il livello medio si alza significativamente: circa 900.000 euro lordi annui, anche grazie a paracadute retrocessione e investimenti speculativi dei club. Nella 3. Liga tedesca, si oscilla tra 40.000 e 90.000 euro netti l’anno. In America Latina, in seconda divisione (Brasile Serie B, Argentina Primera Nacional), molti stipendi scendono sotto i 15.000 euro netti l’anno, spesso erogati in ritardo o soggetti a rescissione anticipata. Infine, In MLS Next Pro (terza serie USA), il salario minimo 2024 è $67.000 annui lordi.
E la terza serie italiana, la Serie C, offre compensi ancora più modesti: media 25.000–40.000 euro netti, con punte più alte solo per i veterani o per club ambiziosi. Alcuni tesserati firmano contratti da 18.000 euro annui o addirittura a gettone, ben al di sotto del salario medio nazionale.
Il contratto da otto anni: rivoluzione o trucco contabile?
È in questo contesto si inserisce la misura varata dal governo italiano. Portare a otto anni la durata massima di un contratto significa, dal punto di vista contabile, poter spalmare l’ammortamento del cartellino su un periodo più lungo. Un vantaggio per i bilanci delle società, soprattutto per quelle che puntano su giovani da valorizzare.
Ma la norma non è priva di controindicazioni. I contratti troppo lunghi possono ridurre la libertà dei calciatori, soprattutto in caso di mancato impiego o deterioramento dei rapporti con l’ambiente. Inoltre, come già sottolineato dall’UEFA, il prolungamento potrebbe prestarsi a forzature di bilancio, come dimostrato dal caso del Chelsea, che ha già sperimentato questa strategia in Premier prima che la federazione inglese ponesse un limite a sette anni.
Il futuro: tra diritto, economia e passione
L’evoluzione degli stipendi nel calcio non è solo una questione numerica. È il riflesso dei cambiamenti della società, della globalizzazione, della finanziarizzazione dello sport. Da sport popolare a fenomeno industriale da miliardi, il calcio ha smarrito forse qualcosa della sua essenza originaria, ma resta un osservatorio privilegiato per leggere le dinamiche del nostro tempo. E mentre i contratti si allungano, resta aperta una domanda: il valore di un calciatore sta ancora solo in quello che fa sul campo?
(foto ANSA)