Nei giorni scorsi, la Corte di Cassazione ha messo la parola fine al maxi-processo sulla Banca Popolare di Vicenza, iniziato esattamente 10 anni fa. Una vicenda emblematica, dolorosa, che ha coinvolto l’intero nord-est, dal più potente industriale al pensionato risparmiatore parsimonioso.
La storia
La Banca Popolare di Vicenza è stata una storica istituzione finanziaria italiana, fondata nel 1866 come prima banca popolare del Veneto e prima banca costituita a Vicenza. Per oltre un secolo, ha operato principalmente a livello locale, sostenendo lo sviluppo economico del territorio.
Negli anni ’90, la BPVi ha avviato un processo di espansione attraverso l’acquisizione di diverse banche locali e regionali, consolidando la sua presenza nel panorama bancario italiano. Tuttavia, a partire dal 2012, l’istituto ha affrontato una serie di difficoltà finanziarie, culminate nel 2017 con la sua liquidazione coatta amministrativa.
La crisi della BPVi è stata attribuita a diversi fattori, tra cui una gestione caratterizzata da operazioni finanziarie rischiose e comportamenti scorretti da parte degli amministratori e dei dirigenti. In particolare, sotto la presidenza di Gianni Zonin (nella foto in copertina, Ansa), in carica dal 1996 al 2015, la banca è stata coinvolta in pratiche come la concessione di finanziamenti ai clienti per l’acquisto di azioni proprie, note come “operazioni baciate”, che hanno contribuito a gonfiare artificialmente il valore delle azioni.
Nel 2015, a seguito di un’ispezione della Banca Centrale Europea, Zonin ha lasciato la presidenza ed è stato successivamente indagato per reati quali aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza. In quell’anno, il bilancio consolidato del Gruppo Banca Popolare di Vicenza presentava un totale attivo di circa 41,1 miliardi di euro al 30 giugno 2015 e di circa 46,5 miliardi di euro al 31 dicembre 2014. Nel marzo 2021, il Tribunale di Vicenza lo ha condannato in primo grado a 6 anni e 6 mesi di reclusione. In appello, nell’ottobre 2022, la pena è stata ridotta a 3 anni e 11 mesi. Recentemente, nell’aprile 2025, la Corte di Cassazione ha ulteriormente ridotto le pene per Zonin e altri ex dirigenti della banca.
La liquidazione della BPVi ha avuto un impatto significativo su circa 118.000 azionisti, molti dei quali piccoli risparmiatori, che hanno visto azzerarsi il valore dei loro investimenti, stimati in una perdita complessiva di quasi 6 miliardi di euro. Nel giugno 2017, le attività sane della banca sono state acquisite da Intesa Sanpaolo per un euro simbolico, con il supporto finanziario dello Stato italiano.
L’intervista
Il giornalista d’inchiesta Marco Milioni ha seguito questo caso sin dall’inizio. «Sostanzialmente tutto è cominciato nel 2015, quando ci furono le prime perquisizioni della Guardia di Finanza. Il problema riguardava il valore delle azioni della Banca Popolare di Vicenza, che era diventato estremamente ballerino. Se ne parlò parecchio sui giornali, e ci fu un momento di grandissima difficoltà anche per la banca stessa che, nel frattempo, è di fatto collassata. Tecnicamente non si può parlare di un vero e proprio fallimento, ma fu posta in liquidazione coatta amministrativa. Sostanzialmente, la banca non esiste più».

Marco Milioni – foto Milioni
E perché è collassata?
«I motivi sono diversi. Anzitutto, perché furono concessi prestiti a soggetti che non avevano titolo creditizio. Poi, per sostenere il bilancio, furono messe in atto operazioni spericolate che lo portarono in una condizione molto critica.
C’è poi un aspetto più oscuro, mai sondato fino in fondo, che riguarda la solvibilità della banca. Alcuni sostengono che la Popolare di Vicenza non doveva essere messa in liquidazione, ma semplicemente ristrutturata. Gli attivi c’erano, e anche in abbondanza. Ma alla fine, la banca — e lo stesso vale per Veneto Banca — è stata fatta confluire in Banca Intesa, che ha comprato tutto per un euro: attivi, dipendenti, tutto».
C’è dell’altro che la colpisce in questa storia?
«Sì. In realtà i problemi non iniziano nel 2015. Già prima, molti azionisti e addetti ai lavori denunciavano una situazione gravissima: valore gonfiato delle azioni, bilanci non trasparenti. Ma queste voci critiche furono silenziate grazie a una rete di protezione attorno alla banca e al suo presidente, Gianni Zonin. È questo che oggi viene imputato: una gestione opaca, protetta da complicità esterne».
Oltre alla parte economico-finanziaria, lei ha anche vissuto in prima persona i drammi delle famiglie colpite. Cosa ricorda?
«Ricordo persone assillate dai problemi. Gente che aveva investito tutti i propri risparmi nelle azioni della banca e si è trovata con tutto azzerato.
E c’era anche un meccanismo perverso: chi chiedeva un mutuo si sentiva rispondere “Sì, ma solo se compri un pacchetto di azioni della banca”. Questa pratica, chiamata “operazione baciate”, è vietata dalla legge. Comprare le proprie azioni a credito distrugge i bilanci. Ma oltre all’aspetto contabile, c’è il disastro umano: tentativi di suicidio, suicidi riusciti, malori, aziende fallite, famiglie rovinate. Questa non è solo la storia di una banca: è la storia di una tragedia sociale. Ha colpito non solo Vicenza, ma tutto il Nord-Est: Udine, Treviso, Venezia, Padova… . La banca era radicata. E alla fine, chi ha pagato? I più deboli: operai, piccoli impiegati, artigiani, pensionati. Chi si è comportato male, ottenendo prestiti senza merito, non ha subito nulla. È un’ingiustizia enorme. C’è anche un film di Antonio Albanese, “Cento domeniche” del 2023, che spiega molto bene questo dramma psicologico».

Protesta davanti al tribunale – Ansa/Giampaolo Grassi
Una tragedia sociale.
«Esatto. La sentenza ha dato tre anni e cinque mesi a Zonin e pene simili agli altri imputati. Ma bisogna dire che una parte delle accuse è caduta in prescrizione, l’inchiesta è durata troppo. Ci sono anche zone d’ombra sulla magistratura. I reati ipotizzati erano falso in prospetto, aggiotaggio… . Ma la bancarotta fraudolenta, che avrebbe previsto pene più severe, non è stata perseguita. E qui c’è la contraddizione: se c’è stata bancarotta, è grave che non ci siano condanne per bancarotta; se invece la banca era solvibile, perché allora non si sono usati quei soldi per risarcire i risparmiatori? È una contraddizione enorme, che fa molto male alla popolazione veneta».
A proposito: a che punto stanno i risarcimenti?
«Ci sono stati dei risarcimenti grazie a una legge dello Stato, ottenuta con fatica e grazie a pressioni bipartisan, soprattutto da Lega e 5 Stelle. Hanno indennizzato in parte i soggetti più deboli, con un rimborso che si aggira attorno al 30% di quanto perso. Non era scontato, ma è successo. Per quanto riguarda invece i risarcimenti attraverso la via giudiziaria, siamo ancora lontani: molte responsabilità non sono mai emerse, e qui torniamo alla rete di protezione di cui parlavo prima. Le inchieste lo raccontano: coinvolti apparati della Guardia di Finanza, Banca d’Italia, Consob, servizi segreti, politica, stampa. Una rete che ha impedito alla verità piena sul “sistema Zonin” di emergere. Era una banca di sistema, e nessuno voleva toccarla davvero».
Una riflessione sul ruolo dell’informazione.
«Nelle prime fasi della crisi, quando i problemi c’erano ma non si dicevano, anche una parte della stampa ha avuto un ruolo gravemente colpevole.
Alcuni giornali locali e anche nazionali non hanno mai messo in discussione la Banca Popolare di Vicenza. I giornalisti dovrebbero farsi un serio esame di coscienza, perché il problema non è esploso all’improvviso: c’era da tempo».