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Greenwashing, che cos’è l’ecologismo di facciata

Micaela Ferraro
17 Novembre 2021
Greenwashing, che cos’è l’ecologismo di facciata
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Molte aziende usano il tema della sostenibilità per fidelizzare il cliente ma non tutelano davvero l’ambiente Tra il dirsi eco-friendly e l’esserlo realmente la differenza è notevole. Soprattutto nel settore […]

Molte aziende usano il tema della sostenibilità per fidelizzare il cliente ma non tutelano davvero l’ambiente

Tra il dirsi eco-friendly e l’esserlo realmente la differenza è notevole. Soprattutto nel settore della moda: le aziende che incentivano la sostenibilità sono sempre più numerose, così come quelle che si dichiarano apertamente eco-friendly, amiche dell’ambiente, ma spesso dietro i termini di sostenibilità ambientale ed etica non ci sono azioni concrete per tutelare il pianeta e le persone.

Si parla di “greenwashing” per indicare un ecologismo di facciata: il termine unisce due parole inglesi, “green” come verde e “washing”, lavare, usato nel senso di “coprire, nascondere”. Chi pratica greenwashing vuole mostrare qualità ecosostenibili per conquistare il favore dei consumatori oppure per distrarre dalla propria cattiva reputazione in tema di inquinamento.

Il termine nasce alla fine degli anni ’80, quando l’ambientalista statunitense Jay Westerveld lo utilizzò per riferirsi alla pratica delle catene alberghiere che facevano leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria per invitare gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani. Venne fuori poco dopo che questo invito aveva perlopiù motivazioni economiche.

Le iniziative delle imprese per promuovere campagne di marketing mirate all’esaltazione di caratteristiche apparentemente eco-friendly si sono moltiplicate negli ultimi anni: tantissimi prodotti sono stati etichettati come tali anche se di fatto i brand che forniscono informazioni inerenti la tracciabilità dell’intera filiera sono pochissimi.

Per riconoscere le aziende che praticano greenwashing da quelle realmente eco-friendly occorre prestare attenzione ad alcuni dettagli. Tendenzialmente le imprese “incriminate” realizzano campagne di marketing pubblicizzando l’ecosostenibilità di un prodotto facendo leva solo su alcune caratteristiche, spostando perciò l’attenzione da ciò che ha un vero impatto ambientale. Inoltre, diffondono dati ambientali che non sono sostenuti da informazioni di supporto facilmente accessibili o certificate da terze parti e utilizzano indicazioni generiche e vaghe che possono essere fraintese.

Ci sono anche aziende che inseriscono etichette false o certificazioni contraffatte e che offrono indicazioni magari veritiere ma che hanno lo scopo di distrarre il consumatore dagli effetti ambientali maggiori causati dall’azienda nel suo complesso.

C’è da dire che la sostenibilità è un obiettivo particolarmente difficile da raggiungere, soprattutto per le catene di fast fashion e la moda low cost. Basti pensare alla natura del prodotto, definito “usa e getta” per la scarsa qualità e i bassi costi di produzione. Inoltre negozi di questo tipo hanno bisogno di un ricambio continuo delle merci negli store e tutto questo comporta sfruttamento della manodopera, sovrapproduzioni e smaltimento successivo delle merci invendute o poco usate.

C’è anche un problema di tessuti: i materiali utilizzati spesso non possono essere riciclati perché sono “mischiati”, non sono puri.

Molte aziende celebri sono state accusate di greenwashing: un esempio per tutti è quello di H&M, finita sotto inchiesta e accusata dalla Consumer Authority norvegese per pubblicità ingannevole nel 2019. In questa occasione l’azienda aveva lanciato la campagna pubblicitaria Conscious collection, studiata per farla percepire dai consumatori come azienda green. Ma secondo Matteo Wräd CEO e co-founder di WRÅD e membro di Fashion Revolution Italia, i prodotti Conscious non fornirebbero informazioni precise sulla reale sostenibilità: «pur identificandosi come green, non forniscono informazioni complete come quando, ad esempio, indicano che il loro nylon e il loro poliestere sono riciclati. Perché allora non ne indicano provenienza e costo sociale?».

Un altro esempio ambiguo posto in essere sempre da H&M è quello sul ritiro e lo smaltimento attraverso il riciclo dei capi usati. Fu una campagna pubblicitaria di grande successo del febbraio 2013 che è stata in seguito ispirazione per molte altre aziende anche italiane. Il riciclo dei capi con tessuti composti da fibre in mischia come dicevamo è molto complesso e costoso: molti studi attestano che che solo l’1% dell’abbigliamento può essere realmente riciclato e, in particolare, solo i capi realizzati in 100% lana o cotone o in altre fibre non in mischia.

Altre aziende produttrici di fast fashion accusate di greenwashing sono Uniqlo, Muji, Zara e Asos.

Manca, per il tema della sostenibilità, una legislazione chiara. In Italia il greenwashing è considerato come pubblicità ingannevole ed è controllato dall’Agcom. Ma la pratica è diffusa perché le leggi sono poco stringenti e la materia è complessa e frammentaria.

Quando parliamo di un prodotto davvero sostenibile? Quando si può attribuirgli questa etichetta dal campo fino all’impianto di riciclo o smaltimento.

Per la tutela del consumatore un ruolo fondamentale è svolto dalle certificazioni ma è fondamentale che la trasparenza e la tracciabilità diventino temi centrali per l’industria dell’abbigliamento. È importante il lavoro svolto dal Sustainability Pledge di Unece, la Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite, che ha fornito delle linee guida e raccomandazioni che possono rappresentare la base per una nuova legislazione comune tra i vari Stati.

La transizione ecologica è un obiettivo che si potrà raggiungere solo con un approccio olistico e nel medio-lungo termine, tramite una risposta condivisa da parte di tutti gli stakeholder.

di: Micaela FERRARO

FOTO: AFP

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