
La spesa alimentare sale tre volte di più dell’inflazione, analizziamo il perché del caro-carrello
Debutta il carrello tricolore: fino al 31 dicembre tutte le catene della Grande Distribuzione Organizzata si sono impegnate a rispettare un listino di prezzi calmierati sui generi di necessità principali. L’accoglienza dei consumatori è interlocutoria: l’incidenza dei prezzi alti su frutta e verdura, carni bianche e rosse e insaccati rimane indigeribile per le abitudini delle famiglie.
Gli indicatori economici dicono che il successo dell’iniziativa sarà legato alla capacità di traino sui prodotti secondari: se i consumatori, rinfrancati dal risparmio su farina, latte e uova, sceglieranno anche un buon burro al prezzo giusto, gli ingredienti per un pasto dal finale dolce ci saranno tutti.
Le note amare rimangono legate a frutta e verdura, tra i consumi che andrebbero considerati irrinunciabili: con un calo dell’8% del loro consumo nel secondo trimestre 2023, che sembra destinato quasi a raddoppiare (-15%) nel terzo trimestre, frutta e verdura sulle tavole degli italiani iniziano a scarseggiare. Con conseguenze nefaste per la salute, come sottolinea Coldiretti: «l’aumento dei prezzi ha fatto scendere il consumo individuale sotto la soglia minima di 400
grammi giornalieri di frutta e verdure fresche per persona, raccomandato dal Consiglio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per una dieta sana», come si legge in una nota.
Ma cosa ha innescato l’aumento indiscriminato dei generi alimentari, dei prodotti di più ampio consumo sulla tavola degli italiani? Il governo sembra in ritardo sull’analisi puntuale delle cause. Che sono probabilmente una coincidenza di fattori: la congiuntura finanziaria, i rincari del costo del denaro dovuti alla Bce e quelli dei carburanti. La guerra in Ucraina che rallenta non solo il grano ma anche i mangimi necessari per gli allevamenti italiani. La difficoltà nel reperire manodopera per i lavori agricoli stagionali, la crisi climatica con la siccità che comporta. Tra tante variabili, un dato certo: l’inflazione è al 6,3%. Può essere considerata al 6,5% se unita all’aumento delle spese di trasporto, per l’incidenza del carburante. Tuttavia, i rincari alimentari sono di gran lunga maggiori. La spesa media, oggi, è più cara del 36% rispetto al 2021. Secondo una analisi di Altroconsumo, con riferimento a dieci prodotti inseriti nel carrello della spesa andremo alla cassa con un esborso del 13% in più sul 2022 e di quasi il triplo, il 36%, rispetto a due anni fa.
Tutti i rilevamenti dei prezzi sono certificati da Istat, che modifica ogni anno in modo dinamico il campione dei prodotti e servizi monitorati. Se il rilascio dei dati avviene a febbraio, ed il prossimo sarà quindi tra quattro mesi, è proprio in questo periodo autunnale che l’Istituto di Statistica valuta le variazioni del suo paniere: cosa entra e cosa esce può incidere anche significativamente sulla valutazione dell’inflazione rilevata. Facendo leva su una grande quantità di prodotti: sono circa 33 milioni le quotazioni di prezzo (scanner data) provenienti ogni mese dalla GDO utilizzate nel 2023 per stimare l’inflazione; 398mila sono raccolte sul territorio dagli Uffici comunali di statistica; quasi 189mila dall’Istat direttamente o tramite fornitori di dati; più di 167mila le quotazioni provenienti dalla base dati dei prezzi dei carburanti del Ministero dello Sviluppo economico. L’ultimo anno i vertici Istat hanno deciso di inserire, ad esempio, il Tonno di pescata e i Rombi di
allevamento. Due prodotti di fascia medio-alta che incidono sul paniere generale pur rientrando in una particolare classe di generi alimentari. I consumatori dallo spending elevato risentono come tutti dell’aumento dei prezzi ma riescono a contenerlo con meno fatica, a compensare più facilmente il maggior esborso alimentare.
Se l’inflazione morde, le risposte stentano. Il carrello tricolore è una operazione scontistica limitata nel tempo: tramonterà a fine dicembre, in coincidenza con l’auspicata ripresa dei consumi per le festività di fine anno. Torneranno frutta e verdura fresche sulle nostre tavole? Non tutti ascrivono il minore acquisto al solo aumento dei prezzi. Secondo il professor Marino Niola, docente di antropologia all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli “come sempre le motivazioni
economiche spiegano solo parzialmente i fenomeni che caratterizzano i comportamenti umani all’interno di una società. Il cambiamento delle abitudini nel consumo di frutta e verdura fresca, infatti, riguarda anche chi non ha problemi di denaro e che, invece di mangiare insalata e arance, preferisce acquistare cibi pronti”. Il timore è che, complice la stretta sul potere d’acquisto, certe abitudini di consumo cambino per sempre.
(Foto: Imago Economica)