Mentre gli italiani, l’8 e 9 giugno, si godevano il weekend ignorando allegramente le urne, lo Stato apriva il portafogli: 88.034.163 euro è il conto finale per il referendum abrogativo 2025. Un conto salato per un evento che si è concluso con un fragoroso nulla di fatto, visto che l’affluenza si è fermata sotto il 30%, ben lontana dal quorum del 50%+1 richiesto per la validità.
Il risultato? Nessuno. Ma il costo, quello sì, concreto e ben distribuito: 63.809.530 euro per le 61.951 sezioni elettorali (1.030 euro ciascuna); 276.020 euro per i 1.492 seggi speciali (185 euro a testa) e 23.948.613 euro per spedire milioni di schede agli elettori all’estero (circa 5,3 milioni di cittadini, a 4,50 euro l’una con posta prioritaria), dal Decreto legge n. 27/2025 e legge n. 72/2025.
Il vero protagonista del weekend è stato il quorum mancante. I cinque quesiti referendari, riguardanti prevalentemente la materia del lavoro con il contratto a tutele crescenti e la disciplina dei licenziamenti illegittimi, i licenziamenti e la relativa indennità di cui si chiedeva l’abrogazione parziale, come delle norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi. Ancora si chiedeva l’abrogazione dell’esclusione della responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore per infortuni subiti dal lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice, come conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese.
Infine il quinto e ultimo quesito, il più discusso, sul quale si è realmente fondata la campagna referendaria e politica delle settimane precedenti il voto, quello sulla cittadinanza italiana e il dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza nel nostro Paese.
Eppure, c’è chi i soldi li ha spesi davvero. “Forse bisogna cambiare la legge sui referendum”, ha detto il Ministro degli Esteri Antonio Tajani durante lo “Speciale Tg1”, sottolineando lo spreco derivante dal voto all’estero: milioni di schede bianche sono tornate indietro senza neanche un segno di penna.
Ha commentare il flop del referendum anche le opposizioni con le dichiarazioni della segretaria del Pd Elly Schlein: ”Noi siamo contenti che oltre 14 milioni di persone siano andate a votare. Per questi referendum hanno votato più elettori di quelli che hanno votato la destra mandando Meloni al governo nel 2022. Ne riparliamo alle politiche”.
A gettare altra benzina sul fuoco ci ha pensato la premier Giorgia Meloni, che ha parlato pubblicamente di 400 milioni di euro spesi per il referendum. Ma qui il conto non torna: quella cifra, secondo fonti governative non meglio precisate, risalirebbe al 2009 e includerebbe costi “indiretti” come, udite udite, il babysitteraggio forzato dovuto alla chiusura delle scuole usate come seggi. Una stima fantasiosa, utile forse a scaldare i talk show, ma ben lontana dai numeri ufficiali riportati nei documenti legislativi.
Ironia della sorte: si è speso più per cercare di convincere gli italiani ad andare a votare che per il contenuto delle proposte stesse. E quando si organizza una consultazione nazionale da quasi 90 milioni per ricevere il silenzio come risposta, forse non è solo la legge sui referendum che va rivista.