Dopo 37 alla guida di American Vogue, Anna Wintour lascia la direzione della testata simbolo del fashion system globale. Ma il suo ritiro non è solo una questione editoriale o culturale. È anche – e forse soprattutto – la chiusura di un ciclo economico che ha trasformato Vogue in una macchina da guerra commerciale, capace di generare ricavi a nove zeri e dettare le regole del mercato.
Quando Wintour arrivò a Vogue nel 1988, la rivista aveva una tiratura stabile attorno al milione di copie, ma era ancora radicata in un’estetica elitaria e in un linguaggio distaccato. Lei capovolse tutto: aprì le copertine alle celebrity, trasformò lo stile in storytelling pop e commerciale, e diede al giornale una potenza attrattiva che travalicava la moda. Vogue divenne così il cuore pulsante di Condé Nast, il suo marchio più riconoscibile e redditizio.
Oggi Condé Nast fattura circa 2 miliardi di dollari l’anno. E benché non tutto provenga da Vogue, è indubbio che sia stata la testata trainante, sia in termini di visibilità globale sia nella capacità di attrarre investimenti pubblicitari. In Gran Bretagna, ad esempio, le entrate pubblicitarie delle testate Condé Nast hanno superato i 200 milioni di sterline annui, e gran parte di quella fetta è riconducibile al brand Vogue, che continua a generare valore attraverso carta, digitale, eventi e branded content.
Ma l’influenza di Wintour non si misura solo in pagine vendute o inserzioni. A fare la differenza è stata la costruzione di un vero ecosistema: da un lato la rivista, dall’altro i grandi eventi, il Met Gala su tutti. È lei che ha trasformato quella che un tempo era una cena benefica per pochi in un fenomeno mediatico planetario. I biglietti, che oggi possono arrivare a costare 75 mila dollari a posto, sono contesi da star, CEO, fondazioni e sponsor. Amazon, TikTok, Instagram: tutti hanno investito cifre a sette zeri per esserci, per comparire, per contare.
Anche sul fronte digitale, Wintour ha anticipato tendenze e monetizzato il passaggio epocale della carta stampata verso il web. Gli abbonamenti digitali, i contenuti premium, i video editoriali e l’e-commerce integrato hanno permesso a Vogue di reggere l’urto della crisi dell’editoria, con una crescita media del 7% annuo nei ricavi da lettori e un balzo del 19% negli introiti legati agli eventi, secondo dati riportati da Axios.
La sua leadership ha avuto ricadute anche sul mondo del lavoro. Il modello “Wintour” – centralizzato, verticale, esigente – ha formato (e talvolta logorato) intere generazioni di redattori, stylist, fotografi, art director. Il romanzo Il diavolo veste Prada, ispirato alla sua figura, ha contribuito a creare un mito – fatto di genio e rigore – che ha plasmato l’idea stessa di successo editoriale. Lavorare a Vogue non era un impiego: era un’investitura, con tutto il carico di aspettative e sacrifici che comportava.
Oggi, mentre si appresta a lasciare la guida operativa di Vogue US – mantenendo però il ruolo di Chief Content Officer per Condé Nast e la supervisione globale di Vogue – Anna Wintour consegna al suo successore un’eredità mastodontica: non solo un marchio potente, ma un sistema editoriale che ha saputo intrecciare cultura e mercato, moda e potere, visione e strategia.
E anche se si fa da parte, è difficile immaginare che smetta di influenzare il settore. Perché Anna Wintour non ha solo diretto una rivista. Ha diretto un’epoca. E l’ha resa – anche economicamente – indimenticabile.
(foto ANSA)