C’è chi racconta l’Italia con documentari, e chi lo fa con un abito tempestato d’oro e vetro di Murano. È il caso di Domenico Dolce e Stefano Gabbana, i due stilisti-registi del grande spettacolo sartoriale italiano, protagonisti indiscussi della mostra evento “Dal Cuore alle Mani”, ora in scena a Roma, dopo i successi di Milano e Parigi. E non è un semplice trasloco espositivo: è un’incoronazione.
Ospitata al Palazzo delle Esposizioni, tempio neoclassico firmato Pio Piacentini, la mostra è più di una celebrazione del brand: è un’esperienza immersiva tra mito, artigianato e lusso. A curarla è Florence Müller, già firma di progetti internazionali, ma qui quasi sacerdotessa del culto D&G. Un culto che si muove tra la maestria sartoriale, l’omaggio al folklore del Sud, e quella sfacciata e teatrale teatralità che rende ogni pezzo riconoscibile a colpo d’occhio. E di cellulare, visto che ogni sala è una potenziale esplosione su Instagram.
Tra Sicilia, Sardegna e Cinema: lusso in ogni cucitura
Il percorso è un viaggio emozionale e visivo tra le ossessioni creative della maison: la Sicilia barocca e folkloristica, la sensualità corsettata dell’“Anatomia Sartoriale”, la devozione in nero e oro, e persino la Sardegna arcaica, con le sue architetture megalitiche reinterpretate in tessuto.
Tre nuove sale debuttano a Roma: quella dedicata al Cinema (con un tributo speciale di Giuseppe Tornatore), una alla Sardegna, e la già menzionata anatomia della moda. Ma è il vestito con il Colosseo dipinto sulla gonna, esposto al centro di una piramide di abiti da sogno, a suggellare il matrimonio tra arte classica e moda contemporanea.
I visitatori affluiscono in massa. Il Palazzo ha dovuto estendere gli orari. Roma risponde con entusiasmo: finalmente la moda è trattata con la stessa riverenza di una mostra su Caravaggio. E D&G ringraziano, con un’esplosione di tulle e broccato.
Dietro i riflettori: numeri, prestigio e indipendenza
L’impero D&G non è solo abiti da passerella. È un’azienda da centinaia di milioni, rigorosamente indipendente, senza cedere a grandi gruppi come LVMH o Kering.
Una scelta che ha il sapore dell’orgoglio familiare e del controllo assoluto. E, dati alla mano, funziona: il marchio resiste ai venti della moda, cavalca il Made in Italy, e si posiziona come baluardo del lusso narrativo e identitario.
Il lato couture delle controversie
Eppure, tra una stola ricamata e un bustino scultoreo, nella trama del successo s’intrecciano anche alcuni fili un po’ meno pregiati.
Per esempio, il famoso blackout delle boutique di Milano nel 2013, con le vetrine tappezzate dalla scritta “Chiuso per indignazione”. Non si trattava di un problema tecnico, bensì di una risposta stilisticamente drammatica alle dichiarazioni di un assessore comunale che aveva osato criticare i due stilisti per le loro traversie giudiziarie.
Già, perché il nome Dolce & Gabbana – oltre a evocare pizzi e passioni sicule – è passato anche per i corridoi del tribunale. Accusati nel 2009 di evasione fiscale per circa 249 milioni di euro attraverso una società in Lussemburgo, i due affrontarono un iter giudiziario tortuoso e mediaticamente esplosivo. Condannati in primo grado a un anno e otto mesi di reclusione, furono poi prosciolti in Cassazione nel 2014 “per non aver commesso il fatto”.
Ma la giustizia non è mai stata il solo campo minato: spot pubblicitari giudicati sessisti, accuse di razzismo (come nel caso della controversa campagna in Cina nel 2018), botta e risposta con Re Giorgio Armani sul tema del plagio, e ovviamente… la diplomazia da social media, fatta di tweet al vetriolo e risposte piccate.
Genio, sregolatezza e la sindrome da tweet
Il tutto senza mai perdere quell’aria da griffe che non chiede scusa, o quantomeno lo fa in modo teatrale. Quando vennero accusati di razzismo per uno scambio su Instagram pubblicato da DietPrada, Gabbana sostenne di essere stato hackerato. Una spiegazione da film di Lino Banfi.
Il filo dell’identità
La mostra Dal Cuore alle Mani è un inno all’artigianalità, alla cultura mediterranea e al sogno estetico. Ma anche un promemoria del prezzo – simbolico, mediatico, e talvolta legale – che si paga quando si decide di essere più di un marchio: un’identità cucita addosso al tempo.
In fondo, Dolce & Gabbana non sono mai stati semplicemente stilisti. Sono narratori barocchi del made in Italy, provocatori professionisti, e – a loro modo – imprenditori che hanno costruito un impero a colpi di tulle, tweet e tribunali. Un caso di studio unico per l’economia del lusso.
E forse anche per quella dell’indignazione.