
Il New York Times ha inchiodato Nike, Coca-Cola e altri colossi come Apple che hanno cercato di impedire il blocco alle merci prodotte nei campi di lavoro forzato dello Xinjiang
Mentre in occidente i nostri beneamati sindacati si premurano di far trovare nelle toilette aziendali la carta igienica morbida, rosa e profumata, facendo scattare scioperi a ogni pie’ sospinto, nella terra elevata a modello di sviluppo dai burocrati euro-folli, l’Asia, non si fanno esattamente gli stessi scrupoli. Né se ne fanno molte aziende americane, che se da una parte dovrebbero rappresentare un paese che si batte per osteggiare il dumping e lo strapotere commerciale cinese, dall’altra non disdegnano attingere a piene mani dalla catena produttiva che parte proprio dall’Asia.
Non è una novità che multinazionali USA sfruttino manodopera a basso costo, anche minorile, per produrre merci, rivendute poi a prezzi esorbitanti per ammortizzare investimenti milionari in marketing. È più attuale, invece, rilevare come concreto quanto tutti portavano solo come congettura: l’attività di lobbying per esercitare influenza sulle scelte politiche, spendere ingenti cifre per finanziare aziende o fondazioni legate a politici per manovrarne l’attività legislativa.
È eclatante il rapporto divulgato dal New York Times che inchioda conglomerati del calibro di Nike e Coca Cola, che si sarebbero prodigate per annacquare il disegno di legge passato alla Camera e che dovrà cercare il sostegno in Senato (ormai sotto Biden), con cui si vuole impedire l’arrivo di merci prodotte nei campi di lavoro forzato dello Xinjiang, dove vengono impiegati in condizioni disumane uomini e donne uyghuri, minoranza etnica musulmana notoriamente perseguitata in Cina. Il testo, a cui si sono opposti celatamente, sempre “oliando” gli ingranaggi giusti, anche altri grandi nomi, renderebbe impossibile approvvigionarsi di materie come cotone, carbone, zucchero e polisilicio, utilizzati per le industrie tessile, alimentare e tecnologica. Nell’elenco del rapporto pubblicato dalla Commissione esecutiva del Congresso sulla Cina, confermato dall’Australian Strategic Policy Institute, compare infatti anche Apple, che avrebbe pagato al Fierce Government Relations, una società di ex collaboratori del Senatore Mitch McConnell e George W. Bush, 90.000 dollari per esercitare pressioni. In un approfondimento del Washington Post di marzo si legge che le fabbriche sembrano prigioni, con filo spinato, torri di guardia, telecamere di sorveglianza. Gli operai uyghuri non possono recarsi in autonomia al lavoro né tornare a casa per le vacanze.
Ancora oggi la voce “etica” non sembra rientrare nel vocabolario di molte grandi aziende USA, col rischio di ritrovarci in mano o addosso prodotti realizzati dallo sfruttamento di vittime innocenti. Più che importare queste merci in Italia, dovremmo provare a esportare in Cina la CGIL, e “vedere l’effetto che fa”.
di: Matteo VALLÉRO
Direttore editoriale Business24
articolo uscito nella rubrica IL CAPITALE sul quotidiano La Verità di ieri 03 Dicembre 2020