
Il 44,7% dei nuclei che lo ricevono è formato da un solo componente, mentre il 67,3% è senza minori a carico. Nel 17% dei casi sono presenti anche familiari disabili
A tre anni dall’introduzione del reddito di cittadinanza, una nuova analisi dell’Inps tira un po’ le fila del provvedimento e raccontandoci qualcosa su chi lo percepisce ci restituisce anche una fotografia sociale. Secondo i dati del report il 70% di chi ha iniziato a percepire il reddito fra aprile e giugno 2019 continuava a riceverlo anche nell’ultimo semestre del 2021.
Questo semplice dato evidenzia alcune criticità dell’impianto di politiche attive sul lavoro che sottintende il reddito o la pensione di cittadinanza.
In totale dall’introduzione del reddito hanno beneficiato di almeno una mensilità 4,65 milioni di persone, pari a circa due milioni di nuclei familiari con un’erogazione totale da parte dello Stato di quasi 20 miliardi di euro in 33 mesi.
Andando a scandagliare la composizione della platea, l’Inps rivela che si tratta di un “insieme vasto, articolato, eterogeneo, accomunato dall’assenza o carenza di reddito familiare” che comprende anche “neonati e centenari, componenti di famiglie numerose e persone che vivono da sole, chi ne ha beneficiato per un solo mese e chi per oltre due anni; studenti, lavoratori, titolari di pensione, inattivi, persone nel frattempo decedute“.
In particolare il report evidenzia che il 44,7% dei nuclei è formato da un solo componente, mentre il 67,3% è senza minori a carico. Nel 17% dei casi sono presenti anche familiari disabili nel nucleo del percettore.
L’importo medio è di 546 euro, cifra che cresce se si parla di reddito (577 euro) ma che scende fino a 281 euro se si tratta di pensione di cittadinanza.
Un elemento sul quale riflettere riguarda la durata della percezione del reddito: 6 nuclei su 10 hanno ricevuto più di 18 mensilità e parallelamente si può affermare che chi lo percepisce da più tempo si trova in condizioni più sfavorevoli rispetto a chi ha iniziato a percepirlo da poco.
C’è poi uno “zoccolo duro” costituito da chi ha percepito almeno 24 mensilità, fra aprile 2019 e dicembre 2021. Il carattere della “persistenza” sembra essere “legata soprattutto alla nazionalità del richiedente, alla composizione del nucleo, all’area geografica di residenza, a indicatori economici“, spiega l’Inps.
Nel 67% di questi casi si tratta di nuclei residenti al Sud e, in generale, si trovano a percepire il reddito per periodi più lunghi persone con “un attaccamento al mercato del lavoro basso o nullo; tra di essi la percentuale di chi ha contribuzione recente è di 25 punti inferiore (33% vs 58%) rispetto ai non persistenti“.
Il problema diventa ancora più critico che si pensa che chi appartiene al nucleo dei “persistenti” e percepisce il reddito da diverso tempo è effettivamente a rischio di esclusione sociale: su 100 soggetti percettori dalla primavera del 2019, sono poco meno di 60 i “teoricamente occupabili“.
La discussione riguarda anche e soprattutto le tipologie di lavoro: secondo la sottosegretaria al Mef Maria Cecilia Guerra è necessario eliminare le “forme atipiche” e puntare sulla qualità del lavoro, mentre per il segretario delle Uil PierPaolo Bombardieri accusa le tipologie flessibili: «negli ultimi tre anni su 24 milioni di contratti accesi abbiamo avuto quattro milioni di contratti a tempo indeterminato e 20 milioni di contratti precari, part time, partite Iva, false cooperative».
di: Marianna MANCINI
FOTO: ANSA/ALESSANDRO DI MARCO
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