
Un report della società di asset management di Ginevra evidenza le differenze tra le crisi in atto a livello globale
«Sia nel primo che nel secondo trimestre dell’anno il Pil USA ha registrato per due volte consecutive un tasso di decrescita e, in questi casi, gli economisti definiscono tale scenario come una recessione tecnica. Rispettivamente, è stato stimato un -1.6% ed un -0.6% su base annuale». Ad affermarlo in un report è Giacomo Calef (nella foto), country manager di Ns Partners, società di asset management ginevrina fondata nel 1964 e specializzata nella gestione dei grandi patrimoni.
«Nonostante l’ultimo dato sull’inflazione, con riferimento al mese di luglio, abbia sancito un probabile picco – prosegue l’analista -, la crescita dei prezzi risulta ancora significativamente elevata e la Federal Reserve dovrebbe continuare ad adottare una politica monetaria restrittiva, a costo di raffreddare l’economia. Infatti, diverse società, incluse le big della tecnologia statunitense, in vista di una possibile recessione hanno già cominciato a ridurre le assunzioni.Tuttavia, anche se negli Stati Uniti dovesse verificarsi una recessione, l’impatto sull’economia potrebbe essere più contenuto rispetto ai Paesi europei».
Da un lato, spiega l’analista, «il mercato del lavoro mostra comunque segni di solidità, con un numero di nuovi posti di lavoro creati a luglio che ha sorpreso in positivo ed un tasso di disoccupazione che è sceso sotto il minimo pre-pandemia, pari a 3,5%. Inoltre, il settore privato gode di una buona salute finanziaria, con i risparmi che sono stati accumulati nel corrente ciclo economico che si attestano a circa il 10% del Pil. Quest’ultimi, in particolare, saranno utili per assorbire gli effetti di una potenziale recessione economica. Dall’altro lato, invece, si consideri l’importante ciclo di investimenti strutturali che ci attendiamo per i prossimi anni».
Ad agosto, rileva, «Biden ha siglato l’Inflation Reduction Act, ovvero un vasto programma di investimenti da 750 miliardi di dollari per la transizione energetica, soprattutto, oltre a sanità e fisco. Ben differente, invece, la situazione europea, che questa settimana è stata segnata da evento storico: il tasso di cambio Euro vs Dollari, per la prima volta, è sceso sotto la parità, con i mercati che temono maggiormente l’arrivo di una recessione».
«Molti Paesi europei sono importatori di energia, denominata in dollari – prosegue Calef -, e l’indebolimento dell’euro non fa altro che aumentare l’inflazione importata. La normalizzazione della politica monetaria della Bce, infatti, non riesce a stare al passo con quella della Fed, poiché l’inflazione europea non è determinata dalla forza della domanda, come negli USA, bensì dagli elevati costi dell’energia».
«In questo contesto – conclude -, è ragionevole attendersi che l’euro possa deprezzarsi ulteriormente. A livello di asset allocation sarebbe quindi più opportuno focalizzare gli investimenti negli Stati Uniti, dove la maggior parte delle big cap hanno pubblicato risultati di bilancio migliori delle attese, nonostante i maggiori costi operativi e la forza del dollaro, che penalizza i ricavi generati all’estero».