
Sempre più aziende ed e-commerce applicano commissioni per il reso della merce: una pratica sempre più diffusa dal pesante impatto economico e soprattutto ambientale
Restituire un articolo acquistato in un negozio senza costi aggiuntivi? Quella che sembrava ormai una regola standard, e non un servizio aggiuntivo, sta pian piano cedendo il posto a nuove politiche aziendali di molti grandi retailer che ora decidono di imporre delle commissioni per il reso della merce.
Nuove politiche vengono gradualmente introdotte nei vari mercati per sensibilizzare i consumatori sui costi di reso in capo alle aziende.
Così ad esempio il gruppo Inditex cui fanno capo, fra gli altri, Zara, Bershka, Stradivarius e Pull&Bear, che in tutto il Regno Unito ha imposto un contributo fisso di circa due sterline per ciascun reso, a domicilio o nei punti di raccolta.
La stessa strada è stata intrapresa anche dal colosso nipponico Uniqlo e dallo shopper online Asos.
I resi comportano infatti un costo che le aziende non sarebbero più disposte a sostenere in autonomia, in termini di soldi ma anche di tempo speso. Negli ultimi anni, complice la pandemia, si è registrato un vero e proprio boom delle restituzioni: forti della gratuità del reso, i consumatori non esitano a comprare online senza provare i vestiti o addirittura acquistando direttamente più taglie e più modelli destinati in partenza ad essere rimandati indietro.
C’è poi l’aspetto edonistico di chi acquista capi di abbigliamento unicamente per postare la foto di un outfit, salvo poi conservare gelosamente il cartellino e rimandare indietro la merce effettivamente al di sopra delle proprie possibilità.
Per non parlare dell’impatto ambientale dei resi che spesso, una volta tornai ai magazzini, non vengono neanche rimessi in vendita ma finiscono al macero. Una fine meno costosa per l’azienda ma anche un enorme spreco che porta con sé i danni delle emissioni di anidride carbonica prodotte durante la combustione dei rifiuti. Il tutto, al lordo di imballaggi e spese di trasporto.