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Economia

Pensioni: Italia fanalino di coda in Europa

Maria Lucia Panucci
24 Ottobre 2024
Pensioni: Italia fanalino di coda in Europa
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Il punto con Francesco Cataldi e Federico Giotti, presidente e vicepresidente dell’Unione Nazionale Giovani Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili

In un mondo in cui i tassi di fertilità stanno diminuendo e l’aspettativa di vita è in aumento, i sistemi pensionistici sono al centro dell’attenzione. Quello italiano è inserito fra quelli che presentano aspetti positivi ma anche debolezze rilevanti da affrontare per garantirne l’efficacia e la sostenibilità sul lungo periodo. Secondo il rapporto Mercer Global Pension Index 2024 il podio resta invariato con i migliori sistemi pensionistici del mondo che sono quelli di Olanda, Islanda e Danimarca mentre l’Italia retrocede al 35esimo posto, scendendo di quattro gradini rispetto allo scorso anno, confermandosi fanalino di coda tra i sistemi previdenziali europei, avanti solo ad Austria e Turchia. Anche alla luce dell’ultima manovra finanziaria, appena varata dal Governo, abbiamo fatto il punto con Francesco Cataldi e Federico Giotti, presidente e vicepresidente dell’Unione Nazionale Giovani Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili.

Pensioni italiane inadeguate e troppo costose. Qual è la situazione al momento?

«La situazione non è rosea, benchè i vari aggiustamenti inevitabili fatti su questo fronte negli ultimi anni, con scelte anche dolorose e certamente impopolari, abbiano permesso di migliorare la sostenibilità complessiva. Certamente si può e si deve fare di più, ma sempre preservando la stabilità del sistema».

Secondo l’ultimo rapporto Mercer Global Pension Index 2024 l’Italia retrocede al 35esimo posto, scendendo di quattro gradini rispetto allo scorso anno, confermandosi fanalino di coda tra i sistemi previdenziali europei. Perché questo crollo? E quali sono le maggiori differenze con il resto d’Europa?

«Il peso dell’indebitamento pubblico e quindi degli interessi passivi rimane un fardello che lascia pochi margini di manovra, in campo fiscale come in quello previdenziale. Il report in questione premia il modello dei Paesi Bassi e in generale dell’Europa del nord, sia per il livello delle prestazioni previdenziali ed assistenziali che per la sostenibilità di quei sistemi, ma va evidenziato che spesso si tratta di sistemi ove, oltre al finanziamento tramite i contributi previdenziali versati, si attinge alla fiscalità generale, ovviamente beneficiando del fatto che lì è possibile farlo: l’Olanda ha un regime fiscale privilegiato in Europa e quindi attrae grandi multinazionali che lì hanno deciso e decidono di spostare la propria sede, basti pensare anche a celebri esempi di grandi aziende un tempo italiane. Questo, non per togliere meriti a loro nè per fornire alibi al nostro sistema previdenziale, è un fenomeno che va evidenziato».

Francesco Cataldi presidente dell’Unione Nazionale Giovani Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili

Francesco Cataldi presidente dell’Unione Nazionale Giovani Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili

Secondo quanto previsto in manovra, per le pensioni di importo pari o inferiore al trattamento minimo nel 2025 ci sarà un incremento del 2,2% e dell’1,3% nel 2026. Le pensioni arriveranno così a 617,9 euro dai 614,77 attuali, con un incremento di circa 3 euro. Troppo poco non vi pare?

«Certamente considerando il costo della vita attuale pensioni minime del genere non consentono una vita dignitosa. Chi ne “beneficia” e ancor di più chi in pensione ci andrà magari tra 20 o 30 anni paga il conto di decenni di scelte sbagliate ed opportunistiche, di pensioni anticipate, erogate a fronte di pochi anni di contribuzione. L’introduzione del contributivo puro pone fine a questo perverso meccanismo ma il conto da pagare rimarrà per decenni e come al solito a farne le spese sono i più giovani, chi ancora non era nato quando veniva messo in atto questo furto al proprio futuro pensionistico. Se si aggiunge la decrescita demografica a questo quadro già fosco, abbiamo la classica ciliegina sulla torta».

I paletti sull’uscita flessibile (Quota 103) hanno portato a un flop di domande. Come mai? E la proposta leghista della Quota 41 è migliore secondo lei, fattibile?

«Le poche migliaia di domande per usufruire del pensionamento con 61 anni di età e 42 di contributi è da attribuire alla scarsa convenienza di questa manovra che implica un conteggio dell’importo con sistema totalmente contributivo, e al fatto che rispetto alla più vantaggiosa pensione anticipata ordinaria l’anticipo del pensionamento è minimo. Sulla proposta di quota 41 e quindi di andare a prescindere dall’età in pensione con almeno 41 anni di contributi non ho i dati per vagliarne la fattibilità, ma rilevo che se ne parla da anni e già nel 2018 l’INPS stimò che simile manovra avrebbe un costo altissimo per lo Stato. Certamente l’auspicio è che nessuna forza politica per crearsi consenso continui ad ipotecare il futuro dei giovani e delle generazioni a venire, perchè è un film che abbiamo già vissuto e stiamo vivendo nostro malgrado».

In generale, come rendere le pensioni più sostenibili ed adeguate, anche alla luce del caro-vita attuale?

«In Italia il peso della tassazione e di pari passo quello dei contributi è sostenuto in gran parte dal ceto medio, che è però una parte sempre più piccola del totale dei contribuenti, per effetto di misure penalizzanti che puntualmente lo riguardano. Chi ha redditi bassi per effetto della no tax area non contribuisce alla fiscalità generale, così come per effetto di fenomeni di elusione di alcune grandi multinazionali la contribuzione in termini di imposte dirette delle grandi imprese è relativamente modesta. Coniugare l’esigenza di garantire da un lato un minimo dignitoso di pensioni a chi non ha avuto redditi per molti anni della propria vita da lavoratore o ce li ha avuti bassi e quindi si ritrova con pochi contributi e dall’altro di non rompere il contratto sociale chiedendo troppo a chi già contribuisce molto è una missione impossibile. E’ necessario quindi a nostro avviso internamente intervenire con risparmi di spesa ragionati e non lineari, questi ultimi infatti minano l’efficienza dello Stato (penso alla sanità) e hanno solo effetto recessivo»

Inoltre, concludono Cataldi e Giotti, a livello comunitario l’Unione Europea dovrebbe combattere in modo deciso e unito il comportamento di quanti anche al proprio interno attuano politiche fiscali opportunistiche, un vero dumping fiscale che danneggia tutti i cittadini europei degli altri paesi e rischia di minare la credibilità e solidità del progetto europeo.

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