Il 28esimo rapporto di Caritas italiana, diffuso ieri in occasione dell’VIII Giornata mondiale dei poveri voluta da papa Francesco, evidenzia che il numero di persone che vivono in condizione di povertà assoluta nel nostra Paese negli ultimi dieci è aumentato ininterrottamente, raggiungendo ora cifre record. Preoccupa la condizioni dei più fragili, come donne e bambini. Perché non riusciamo ad invertire la rotta, quali sono le criticità maggiori e soprattutto come porvi rimedio? Abbiamo fatto il punto con Walter Nanni, responsabile del servizio Studi di Caritas Italiana.
In Italia una persona su 10 vive in condizioni di povertà assoluta, una cifra record che non accenna a diminuire. Perché?
«E’ un fenomeno multidimensionale e sfaccettato, non c’è un’unica causa. Bisogna tenere conto che all’interno delle famiglie in povertà assoluta ci sono italiani e stranieri e quindi sussistono senza dubbio situazioni diverse dal punto di vista del carico, delle relazioni sociali. Se per gli italiani molte prestazioni assistenziali e di cura sono possibili perché ci si rivolge alla famiglia, per gli stranieri non è così. In linea generale possiamo dire che la crescita dell’occupazione in Italia non ha coinciso con un innalzamento del livello retributivo e questo ha significato che sono aumentate le condizioni di persone povere, anche che lavorano, quindi che, nonostante la presenza di un reddito dichiarato, non riescono a soddisfare i bisogni fondamentali. Le spese sono tante, la vita è sempre più cara, ma gli stipendi rimangono quelli o peggiorano e si fa fatica a mantenere una vita dignitosa».
Come ci posizioniamo rispetto al resto d’Europa?
«Il confronto con l’Europa non è facile perché Eurostat utilizza indicatori diversi da quelli dell’Istat per la povertà assoluta. Mentre l’Istat fa riferimento ad un indicatore che si basa su un paniere di beni e servizi essenziali per la sopravvivenza della persona, Eurostat invece fa riferimento a delle domande a campione sul tipo di vita che si conduce, le spese che si affrontano, le difficoltà riscontrate. Sta di fatto che se noi guardiamo al contesto europeo dobbiamo adattarci al sistema di Eurostat e quindi da ciò risulta che siamo al 20esimo posto su 27. Abbiamo un tasso di incidenza del rischio di povertà ed esclusione al 22,8% delle famiglie, al contrario dell’Europa che mostra un dato al 21,4%. Per Eurostat la situazione italiana è in netto miglioramento rispetto agli ultimi anni, tranne che per gli indicatori che riguardano la grave indigenza che corrisponde a quella che l’Istat chiama povertà assoluta, un dato in peggioramento: +40% in 10 anni».
Il rapporto evidenzia due dati allarmanti: il primo riguarda il Nord dove il numero di famiglie povere supera quelle del Sud. Un paradosso, visto che il Settentrione è storicamente più sviluppato, più industrializzato e più ricco. Come vi spiegate questo dato?
«Ci sono spiegazioni economiche e sociali. Sicuramente nel Nord Italia, soprattutto Nord-Ovest, la crescita occupazionale non ha significato aumenti retributivi, cioè sono aumentate molto le posizioni di lavoro occasionale, part-time, a tempo determinato, ma con livelli retributivi bassi. Un altro elemento da considerare è che mentre al Sud regge anche la relazione familiare, per cui ci si aiuta come può risparmiando soldi, nel Nord Italia si registra una forte presenza di famiglie composte da una sola persona e quindi una minore capacità di potersi affidare a persone esterne. Al Nord si è molto sganciati dalla famiglia d’origine, si è più indipendenti se vogliamo, con un paracadute sociale senza dubbio meno forte».
Un altro dato allarmante che emerge dal report è il dato sulla povertà minorile, ai massimi storici. Come è possibile rimediare?
«Dobbiamo riuscire a fornire i servizi sociali territoriali con maggiori risorse umane. Notiamo che le famiglie con bambini piccoli sono quasi il 60% del totale degli utenti caritas ed in Italia gli under 18 che si trovano in condizioni di povertà sono un milione e 300 mila. Di fronte a ciò non è possibile pensare che il servizio sociale, così com’è strutturato adesso, possa farsi carico di queste situazioni. Quindi bisogna incrementare l’organico di risorse umane nei servizi sociali ed introdurre piccoli sostegni alle famiglie in difficoltà come la mensa in tutti i livelli scolastici anche se il minore non fa il turno full time. E’ importante anche mantenere l’assegno unico che si è rivelato molto positivo e allo stesso tempo prevedere un Assegno di inclusione più consistente per le famiglie che hanno figli minori a carico».
In base ai vostri dati però non stanno funzionando molto le misure di sostegno alla povertà ed in particolare l’assegno di inclusione. Come mai? Cosa sta accadendo?
«Siamo di fronte ad una misura che non è universalistica ma riguarda solo categorie particolari. Quindi l’assegno di inclusione si percepisce se c’è una invalidità, un figlio minore a carico, se il richiedente è in carico ai servizi sociali. Nonostante le migliorie che sono state fatte, come per esempio l’aver portato gli anni di residenza da dieci a cinque per gli stranieri per ottenere il sussidio, allo stesso tempo il fatto di aver diviso i beneficiari in tante piccole categorie ha fatto sì che si riducesse il numero effettivo di persone che lo hanno ottenuto. Guardando ai primi sei mesi del 2024 si registra un dimezzamento dei beneficiari su base annua. Non è una novità perché già il Reddito di cittadinanza veniva percepito dal 16% degli utenti caritas, molto meno di quanti in realtà ne avessero bisogno, quindi anche quella misura non andava bene per altri motivi. Inoltre a complicare tutto è la mancanza di competenze digitali delle persone, la difficoltà di molte di navigare su Internet per cui la presenza di un tutor che affianchi nella compilazione della domanda online aiuterebbe, così come l’eliminazione di tutte questi ostacoli che attualmente ci sono che rendono difficoltoso dimostrare di aver i requisiti per beneficiarne».
Sono in aumento anche i working poor, cioè lavoro ma rischio di essere povero? Mi può spiegare meglio?
«Il dato Istat già ci dice che la differenza di incidenza di povertà tra operai o assimilati e disoccupati è soltanto di tre-quattro punti percentuali, quindi ormai quasi uguali, il ché sta a significare che in alcune categorie di lavoro i livelli di reddito sono molto bassi per vari fattori come la proliferazione di contratti che non corrispondono al reddito percepito, contratti nazionali scaduti da anni ma che continuano ad essere applicati e necessitano di un aggiornamento, situazioni di vero e proprio sfruttamento di lavoro. Bisogna anche soffermarsi sul ruolo della donna, visto che l’incidenza più forte di povertà riguarda proprio il genere femminile che, si sa, ha livelli retributivi più bassi, perché è impegnata maggiormente in contratti a termine, part-time, in mansioni sotto qualificate. Nel momento in cui è la donna l’unica a portare i soldi a casa, ecco che scatta la trappola della povertà».
Alla luce delle criticità evidenziate come agire per arginare il problema?
«Chiediamo che ci sia un’unica misura su cui concentrare tutte le risorse e gli aiuti economici. Non siamo favorevoli a bonus a pioggia, ai sussidi sparsi a livello locale. Ora si parla di un altro bonus, quello di Natale, il sostegno una tantum dal valore di 100 euro che, insieme alle tredicesime, dovrebbe arrivare nelle buste paga di chi ha un contratto subordinato che non supera i 28mila euro all’anno. Si tratta di circa due milioni di italiani. Invece di aggiungere alla lista questo ulteriore bonus, è bene secondo noi aumentare il Tesoretto da destinare ad un’unica misura, un sistema di sostegno universale e continuativo che eviti l’esclusione delle tante persone in povertà assoluta».
Secondo Nanni bisognerebbe puntare anche sulla formazione di queste famiglie in difficoltà. Il 67% di quelle seguite da Caritas ha al massimo la licenza media, cosa che non aiuta poi a trovare un lavoro. E per i giovani pensare ad una formazione che preveda già un inserimento occupazionale.