Quello della fuga di cervelli, in inglese human capital flight, è un fenomeno sempre più allarmante in Italia. A confermarlo sono gli studi pubblicati dalla Fondazione Nord Est che dimostrano quanto il nostro paese e i giovani italiani, tra i 18 e 34 anni, siano preda della caccia globale dei talenti.
Basti pensare che, tra il 2011 e il 2023, il valore del capitale umano emigrato dal nostro paese si stima sia stato intorno ai 134 miliardi. E, solo nell’ultimo biennio, la media è di 8,4 miliardi l’anno.
Numeri importanti che provano quanto l’Italia non sia in grado valorizzare, e far sentire valorizzate, le nuove generazioni; al contrario, evidentemente, dei paesi che ospitano i giovani talenti italiani in cerca di opportunità lavorative.
Penalizzati in partenza, dal nido alla pensione per i giovani italiani la strada è tutta in salita rispetto ai coetanei europei. Il centro di ricerca ARC dell’Università Cattolica di Milano, diretto dal prof. Mauro Magatti, ha analizzato le tappe cruciali del percorso formativo e professionale dei nostri ragazzi confrontandole con quelle di Paesi comparabili: Francia, Germania e Spagna.
Dalla scuola al lavoro: un passaggio problematico
I ragazzi nel corso degli anni della formazione hanno poche occasioni di incontro con le imprese per orientarsi verso le future occupazioni. Risultato: i diplomati italiani che hanno trovato lavoro a tre anni dal conseguimento del titolo di studio sono solo il 63,5% contro il 76,3% dei francesi, il 77,8% degli spagnoli e il 91,4% dei tedeschi.
Per i laureati la situazione migliora, ma di poco: hanno un lavoro, a tre anni dal titolo, quasi tre su quattro (74,6%) contro l’83,1% degli spagnoli, l’83,4% dei francesi e il 94,4% dei tedeschi.
Il paradosso, tutto italiano, è che, nonostante la quota di laureati sia la più bassa tra i 4 maggiori Paesi europei, fanno pure fatica a trovare un impiego stabile.
Solo il 20,6% dei diplomati ha un contratto a tempo indeterminato a tre anni dal diploma, mentre per chi ha una laurea triennale, a un anno dal titolo, il contratto a tempo indeterminato riguarda solo il 31,9%, che sale al 68,2% dopo 5 anni dal conseguimento del titolo.
Più in generale quasi il 40% dei giovani italiani sotto i 29 anni ha un contratto precario, contro il 36% di francesi e tedeschi. Ci consoliamo con gli spagnoli, che fanno un pelino peggio con il 42,8%.
Il primo stipendio
Quanto guadagnano neodiplomati e neolaureati? I primi, a un anno dal titolo, secondo il più recente dossier di AlmaDiploma (qui pag.77), ricevono in media uno stipendio netto di 829 euro (con un massimo di 991 euro per chi ha frequentato istituti tecnici o professionali). I secondi invece, ricostruisce AlmaLaurea, incassano 1.366 euro se hanno una laurea magistrale, 1.332 euro con laurea triennale.
La differenza tra gli stipendi di diplomati e laureati non è particolarmente alta. Lo confermano anche le statistiche dell’Ocse: un laureato di 25-34 anni guadagna il 25% in più di un diplomato, contro il 27% di un francese, il 35% di un tedesco e il 48% di uno spagnolo.
In Italia i laureati entrano nel mercato del lavoro tendenzialmente più tardi rispetto ai coetanei europei, ma spesso anche a causa della scelta di un percorso di studi che offre sbocchi lavorativi limitati.
La maggioranza relativa dei nostri laureati (42%) ha conseguito un titolo in discipline umanistiche e scienze dell’educazione e sociali, contro una media Ue del 29%. Resta troppo bassa la quota di laureati nelle discipline STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria, Matematica): il 25% contro il 28% della Francia, il 38% della Germania e il misero 21% della Spagna, che però compensa intercettando immigrazione qualificata, e a formare quella che ha.
Noi non facciamo né l’una né l’altra. Ci collochiamo al penultimo posto in Europa per quota di cittadini non comunitari in possesso di un titolo di studio terziario (11%), un dato molto distante rispetto a Spagna (28,1%), Germania (33,4%) e Francia (47,2%).
Quelli che restano a vivere con i genitori e quelli che espatriano
Un dramma che affligge un po’ tutti i Paesi europei è quello dei giovani fra i 15 e 29 anni che non studiano, non cercano lavoro e non frequentano corsi di formazione.
Anche qui però i numeri ci collocano al primo posto con un 1,6 milioni di italiani inattivi, circa un quinto del totale (19%); decisamente più basse le quote di Spagna (12,7%), Francia (12%) e Germania (8,6%). Qual è l’identikit del tipico Neet che vive nel nostro Paese? Secondo l’Istat è donna, di origine straniera, risiede al Sud, ha un’istruzione medio-bassa.
Tuttavia, più di un Neet su dieci (14% oltre 200 mila ragazzi) ha una laurea. La considerazione è che non è in grado di trovare il mestiere per cui ha studiato, oppure svolge attività marginali che sfuggono ai rilevamenti statistici.
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Siamo anche il Paese dove si abita più a lungo con i genitori: 7,1 milioni di ragazzi italiani tra i 18-34 anni (69,4% del totale) non sono andati ancora a vivere da soli. In Spagna sono il 65,9%, in Francia il 43,4%, in Germania il 31,3%.
Poi c’è chi se ne va. Secondo un recente studio pubblicato dalla Fondazione Nord Est e dall’associazione TIUK, tra il 2011 e il 2021 sono almeno 1,3 milioni i 18-34enni emigrati in Paesi della Ue e in Gran Bretagna.
Per ogni giovane straniero che sceglie di vivere da noi, ci sono 17 italiani che abbandonano il Paese. Un esodo che ricorda molto gli anni ’50 e ’60, ma se al tempo a emigrare erano esclusivamente italiani con una istruzione medio-bassa, nei dieci anni presi in considerazione sono circa 390 mila i laureati che hanno lasciato l’Italia.
Stato e famiglie sostengono i costi e poi regaliamo i benefici
Secondo le stime dell’Ocse la formazione di un diplomato costa allo Stato 77 mila euro, quella di un laureato 164 mila euro, quella di un dottore di ricerca228 mila euro. I cervelli in fuga costano allo Stato italiano 4,5 miliardi di euro all’anno.
Per ogni giovane che arriva in Italia dai paesi avanzati, otto italiani vanno all’estero. Secondo uno studio presentato al Cnel dalla Fondazione Nord Est, in tredici anni, dal 2011 al 2023, circa 550mila giovani italiani tra i 18 e 34 anni sono emigrati.
Si stima che al capitale umano uscito corrisponda un valore di 134 miliardi.
Chi riguarda la fuga dei cervelli
Questo fenomeno non risparmia nessuna categoria; tuttavia, alcune tipologie sociali sono maggiormente spinte a emigrare. I giovani laureati, ad esempio, sono tra i protagonisti di questa dinamica, poiché in cerca di opportunità di lavoro e prospettive di una carriera migliore.
Allo stesso tempo, professionisti altamente qualificati in settori come la ricerca scientifica, la medicina e l’ingegneria sono spesso alla ricerca di contesti che valorizzino il loro talento. Anche imprenditori e creativi trovano spesso maggiori stimoli oltre i confini nazionali.
Rispetto al resto d’Europa, l’Italia è all’ultimo posto per capacità di attrazione di giovani, accogliendo solo il 6% di europei, contro il 43% della Svizzera e il 32% della Spagna. Molti vanno via per ricercare migliori opportunità lavorative (25%), ma anche per studio e formazione (19,2%) e per cercare una qualità di vita più alta (17,1%).
Il 10% invece è alla ricerca di un salario più alto. E accade soprattutto al Nord Italia, dove il 35% dei giovani residenti è pronto a trasferirsi all’estero. Secondo il rapporto, quasi l’80% dei expat è occupato, contro il 64% di chi è rimasto.
Cause del fenomeno di migrazione dei migliori cervelli
Tra le cause principali del fenomeno ci sono le limitate opportunità di lavoro. In Italia, le opportunità per i professionisti qualificati sono limitate, sia in termini di numero che di posizioni di lavoro. Spesso, posizioni in settori ad alta tecnologia o ricerca sono scarse e non offrono lo stesso livello di sviluppo di carriera che si può trovare all’estero.
Un altro motivo spesso citato riguarda i bassi salari, soprattutto nei settori della ricerca e della tecnologia, causati dagli insufficienti investimenti da parte dello Stato. Il lavoro nel campo della ricerca è reso ancora più difficile dalla complessità burocratica e dall’inefficienza amministrativa, la cui lentezza dei processi rende particolarmente difficile aprire e gestire attività.
L’Italia affronta una forte carenza di profili tecnici. Eppure, il 58,2% di chi è andato a lavorare all’estero svolge ruoli che nel nostro Paese le aziende faticano a ricoprire: professioni qualificate nei servizi, operai specializzati e semi-specializzati, personale senza qualifica.
Il benessere percepito, la visione del futuro e la condizione professionale sono i fattori che spiegano perché il 33% degli expat intende rimanere all’estero, a fronte del 16% che prevede di tornare in Italia, principalmente per motivi familiari. Inoltre, il 51% dei professionisti all’estero è aperto a trasferirsi dove si presenteranno le migliori opportunità lavorative.
È significativo che l’87% degli expat giudichi positivamente la propria esperienza all’estero. La ragione principale per cui decidono di non tornare in Italia è la mancanza di opportunità lavorative simili nel paese. A questa si aggiungono opinioni diffuse sulla scarsa apertura culturale e internazionale dell’Italia, oltre alla percezione di una qualità della vita superiore negli altri paesi.
Cosa sta facendo lo Stato e la politica
Negli ultimi anni ci sono stati provvedimenti per invertire la rotta e incentivare le assunzioni dei giovani. Il più noto si chiamava Quota 100. La misura afferma che per ogni lavoratore che avesse scelto la pensione anticipata (a 62 anni e con 38 di contributi), sarebbero stati assunti tre giovani. Il provvedimento è risultato molto oneroso e per ogni due pensionati anticipati nel settore privato c’è stata una singola assunzione.
L’Italia ha introdotto diverse misure per incentivare la permanenza dei giovani nel nostro Paese, non sempre in modo efficace. Tra le più significative, c’è la possibilità di comprare casa a prezzo agevolato per coloro che rientrano in determinate categorie, come i giovani professionisti o gli emigrati di ritorno. Inoltre, il governo italiano sta lavorando per semplificare le procedure burocratiche e promuovere un ambiente imprenditoriale più favorevole, offrendo incentivi fiscali e finanziari per le nuove imprese.
Nel 2023 è stato approvato un decreto che rende più marcati i vantaggi per i rimpatriati, prevedendo una riduzione della tassazione del 50% per i lavoratori che presentino un’elevata specializzazione. I beneficiari dello sgravio fiscale, però, hanno l’obbligo di rimanere in Italia per almeno i successivi cinque anni, pena la restituzione dello sconto.
Le iniziative prese dallo Stato pongono buone premesse ma evidentemente non bastano: se l’intenzione è porre freno al dilagante fenomeno, e immaginare un’Italia con molti più giovani inseriti professionalmente che scelgono, convinti e soddisfatti, di restare, allora bisogna fare molto di più.
Cifre da capogiro per un Paese che li lascia andar via
Sebbene molti percepiscano questo fenomeno come recente, in realtà affligge il nostro Paese da decenni: fino agli anni ‘60, l’Italia era stata protagonista di un epocale flusso migratorio verso aree del mondo con maggiori prospettive di vita e lavoro, gli Stati Uniti su tutti.
È nel 1972, però, che avvenne la vera e propria inversione di rotta grazie al boom economico che l’Italia ricorda molto bene: il numero di immigrati superò quello degli emigrati per la prima volta nella storia del nostro Paese.
Il rapporto immigrati/emigrati è poi sempre rimasto costante nel tempo; nel 2002 ci fu di nuovo un picco, un maggior numero di persone che decisero di venire in Italia, considerandola meta favorevole per una carriera lavorativa. Fino alla crisi economica mondiale del 2008, fatale per il fenomeno migratorio.
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Il quadro degli italiani che se ne vanno è confermato anche dall’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE): il numero di cittadini che risiedono fuori dall’Italia è passato dai 3.106.251 del 2006 ai 5.806.068 del 2021, con un incremento pari all’87%.
L’ultimo dato disponibile, per l’anno 2023, riguarda i 36.000 cervelli in fuga dall’Italia: la fonte è il 56° Rapporto Censis.
Secondo il report redatto da Fondazione Nord Est e dall’associazione Talented Italians in the UK, che ha elaborato i dati Eurostat, negli ultimi 10 anni l’Italia ha perso 1,3 milioni di persone andate a lavorare e vivere all’estero, sempre nella fascia 25-34 anni.
I cervelli in fuga da dove partono e dove sono diretti
Gli italiani che emigrano in un’altra regione italiana provengono soprattutto da Campania (30%), Sicilia (23%) e Puglia (18%). Anche se rispetto alla popolazione residente, il tasso di emigratorietà più elevato è in Calabria (circa 8 residenti per 1.000).
Per quanto riguarda i cervelli in fuga all’estero, partono soprattutto dal nord Italia. Nel 2021 sono emigrati dal Nord-ovest del Paese circa 29 mila italiani (30,6% degli espatri) e dal Nord-est oltre 21 mila (22,5%).
Numerose anche le partenze dal Sud (18 mila, 19,2%) e dal Centro (16 mila, 16,5%), mentre dalle Isole partono poco meno di 11 mila emigrati italiani (11,3%).
Le migrazioni dal Sud al Nord Italia sono in leggero aumento. Nel periodo 2012-2021 sono andati via da Sud e Isole circa 1 milione 138 mila persone, per trasferirsi al Centro-nord. Il bilancio tra uscite ed entrate si è tradotto in una perdita netta di 525 mila residenti per il Mezzogiorno.
Per quanto riguarda le migrazioni all’estero, l’Europa continua a essere la principale area di destinazione delle emigrazioni dei cittadini italiani (83% degli espatri), ma è anche l’area che ha risentito maggiormente del calo degli espatri nel 2021 (-22% rispetto al 2020).
In calo le partenze degli italiani verso il Regno Unito (23 mila, 24% del totale degli espatri), così come quelle verso la Germania (14 mila, 15%), la Francia (11 mila, 12%), la Svizzera (9 mila, 9%) e la Spagna (6 mila, 6%). Tra i paesi extraeuropei, sono preferiti gli Stati Uniti (4 mila, 4%) e l’Australia (2 mila, 2%).