Per due settimane i riflettori sono stati puntati sulla finanza. La Cop29 a Baku si è concentrata sullo sblocco dei trilioni di dollari necessari ai Paesi in via di sviluppo per affrontare la crisi climatica. Alla fine l’accordo in extremis è stato raggiunto. Dai 100 miliardi di dollari all’anno attuali, previsti dall’Accordo di Parigi, si arriverà gradualmente a 300 miliardi all’anno nel 2035. La cifra non si avvicina all’importo totale di 1.300 miliardi di dollari che i Paesi in via di sviluppo chiedevano, ma è tre volte superiore all’accordo che sta per scadere. Le delegazioni hanno detto che i nuovi negoziati vanno nella giusta direzione, con la speranza che in futuro arrivino altri fondi. C’è stato chi ha applaudito e chi invece è rimasto deluso.
Ma perché si parla tanto oggi di finanza climatica? Quanto serve per soddisfare il fabbisogno mondiale? Com’è messa l’Italia sul fronte della sostenibilità? Abbiamo fatto il punto con Roberto Prioreschi, SEMEA Regional Managing Partner di Bain & Company.
Partiamo dal principio. Cosa si intende per finanza climatica e perché è così importante?
«La finanza climatica si riferisce all’allocazione di risorse finanziarie destinate a sostenere iniziative volte a mitigare i cambiamenti climatici e ad adattarsi ai loro effetti. Questo include investimenti in progetti di energia rinnovabile, miglioramento dell’efficienza energetica, gestione sostenibile delle risorse naturali e sviluppo di infrastrutture resilienti agli eventi climatici estremi. L’obiettivo principale è ridurre le emissioni di gas serra e aumentare la capacità di adattamento delle società agli impatti del cambiamento climatico. E’ cruciale per diversi motivi: fornisce i fondi necessari per sviluppare e implementare tecnologie e pratiche che riducono le emissioni di gas serra; supporta le comunità e le economie nell’adattarsi agli effetti già in atto del cambiamento climatico, come l’innalzamento del livello del mare e fenomeni meteorologici estremi; promuove una crescita economica che non compromette l’ambiente, assicurando che le future generazioni possano soddisfare le proprie esigenze; aiuta i paesi in via di sviluppo, spesso i più colpiti dai cambiamenti climatici, a intraprendere azioni di mitigazione e adattamento, riducendo le disuguaglianze globali. Proprio durante la COP29, tenutasi a Baku e a cui ho avuto l’onore di prendere parte, Bain & Company ha partecipato attivamente facilitando discussioni focalizzate su come colmare il divario tra le ambizioni aziendali e le politiche necessarie per raggiungere gli obiettivi climatici. In quest’occasione abbiamo presentato un recente sondaggio condotto in collaborazione con il World Business Council for Sustainable Development: questo ha rivelato che il 91% dei dirigenti vede la transizione verso emissioni nette zero come un’opportunità di investimento significativa. Tuttavia, solo l’1% ritiene che i propri settori siano sulla buona strada per raggiungere gli obiettivi di zero emissioni nette. Questo evidenzia la necessità di azioni governative sostanziali per rimuovere le barriere esistenti e facilitare investimenti su larga scala verso un futuro a basse emissioni di carbonio».
Uno studio della Climate Policy Initiative ha stimato il fabbisogno mondiale di “finanza climatica” in 10.000 miliardi di dollari all’anno tra il 2030 e il 2050. Secondo voi è un traguardo raggiungibile?
«In generale, il traguardo di 10.000 miliardi di dollari all’anno in finanza climatica tra il 2030 e il 2050 è ambizioso, per non dire utopico. Per realizzarlo, è essenziale che governi, aziende e istituzioni finanziarie collaborino per superare le barriere esistenti. Al momento, il livello di investimenti è ancora lontano dal necessario, ma esistono opportunità per colmare questo divario attraverso politiche mirate, incentivi e innovazione finanziaria. Oggi siamo molto lontani da questo livello di investimenti, ma il potenziale per colmare il divario esiste. Serve un deciso incremento dei finanziamenti pubblici e privati, politiche che semplifichino le autorizzazioni e attraggano capitali, oltre a strumenti finanziari innovativi per il clima. Il settore privato avrà un ruolo cruciale, ma la sua partecipazione sarà efficace solo se supportata da infrastrutture resilienti e tecnologie sostenibili, de-risking degli investimenti e un quadro normativo stabile. Raggiungere questa ambiziosa cifra richiede un’azione rapida e coordinata, ma è essenziale per limitare il riscaldamento globale e creare un futuro a basse emissioni di carbonio».

Roberto Prioreschi, SEMEA Regional Managing Partner di Bain & Company (foto ufficio stampa)
L’Italia risale di una posizione, ma resta in fondo alla classifica delle performance climatiche: l’anno scorso era al 44esimo posto, ora al 43esimo, secondo il Climate Change Performance Index 2025. Comunque ben lontana dalle posizioni di vertice, occupate da Danimarca, Olanda e Regno Unito. Come invertire la rotta? Servono più investimenti?
«L’Italia, per risalire le classifiche delle performance climatiche, si trova di fronte a una sfida difficile che richiede un approccio più ambizioso e strategico, ma che al momento sembra ancora lontano dall’essere raggiunto. Il settore finanziario, pur avendo un ruolo cruciale come abilitazione della transizione ESG, rischia di rimanere impantanato in logiche conservative e investimenti insufficienti. Le istituzioni finanziarie devono non solo aumentare drasticamente gli investimenti per supportare una transizione verso un’economia a basse emissioni, ma anche evitare che il processo finisca per amplificare gli squilibri sociali già esistenti, un rischio tutt’altro che remoto. Gli investimenti verso tecnologie e infrastrutture sostenibili sono fondamentali, ma il supporto richiesto va ben oltre il semplice finanziamento, e spesso manca una visione sistemica e coordinata. Continuare su una strada passiva rispetto ai temi ESG comporta gravi rischi reputazionali e di mercato, ma sembra che il sistema sia più incline a reagire a crisi che a pianificare un cambiamento strutturale. Un approccio proattivo potrebbe posizionare il Paese e le sue imprese finanziarie come leader nella transizione climatica, ma, senza interventi concreti e immediati, questa rimarrà una potenzialità non realizzata. È tempo di passare dagli impegni vuoti a una strategia concreta, che purtroppo appare ancora carente di quell’ambizione, competenza e innovazione necessarie per assicurare una transizione realmente efficace. Se l’Italia fallisce in questo, non solo perderà un’opportunità storica, ma rischia di ritrovarsi ulteriormente marginalizzata in uno scenario globale sempre più competitivo e instabile».
Quali vantaggi l’economia e l’occupazione italiana potrebbero trarre dallo sviluppo delle tecnologie ed investimenti in finanza climatica?
«Lo sviluppo di tecnologie e investimenti in finanza climatica può rappresentare un motore di crescita per l’economia italiana, generando posti di lavoro qualificati e stimolando l’innovazione industriale. Oggi siamo ancora indietro, ma settori come le energie rinnovabili, la mobilità sostenibile e l’efficienza energetica offrirebbero opportunità per creare occupazione e rafforzare la competitività delle imprese italiane, posizionandole come leader globali nelle tecnologie verdi. Inoltre, gli investimenti in infrastrutture resilienti e progetti sostenibili possono garantire una maggiore stabilità economica, riducendo i costi legati agli eventi climatici estremi che costano al sistema paese tra i 10 ed i 15 M.di all’anno. Questa transizione, se supportata da politiche adeguate e una visione di lungo termine, potrebbe trasformarsi in un driver strategico per il rilancio dell’economia italiana, per una crescita più sostenibile e inclusiva, e nel contempo ridurre il costo del “non fare” che anche gli ultimi eventi che hanno colpito il nostro paese ci hanno ricordato».
Alla Cop la presenza italiana è stata considerevole visto che hanno partecipato tre ministri, Pichetto, Schillaci e Valditara, il vice ministro agli Esteri Cirielli, il sottosegretario all’Ambiente Barbaro e una delegazione di parlamentari di maggioranza e minoranza. Sono stati firmati accordi con imprese italiane come Italgas, Ansaldo, Nuovo Pignone e altre, sul contenimento delle emissioni e il taglio degli sprechi. A Baku sono venuti fra gli altri Cnr, ASi, Maire Technimont, Cdp, le Regioni Lombardia e Piemonte. L’obiettivo, ha spiegato l’ambasciatore italiano a Baku, è far fruttare questi contatti, a partire dal tema della transizione energetica. Insomma è stata una Cop positiva per l’Italia, per consolidare ulteriormente i rapporti con l’Azerbaigian e per gli accordi presi. Vedremo con il tempo quanto tutto questo gioverà realmente al nostro Paese.