Il rapporto 2024 del Censis dipinge una società italiana turbata e in profondo cambiamento, che vive una sorta di “sindrome da galleggiamento” che ci “intrappola”. Ci flettiamo come legni storti e ci rialziamo dopo ogni inciampo, senza ammutinamenti. Oggi preoccupa la crisi del ceto medio, la poco propensione dei giovani al lavoro e l’incertezza di un futuro che sarà sempre più condizionati non solo dai cambiamenti climatici ma anche dagli esiti delle guerre in corso. Ne abbiamo parlato con il Consigliere delegato del Censis, Massimiliano Valerii.
Nel vostro ultimo rapporto parlate del fatto che gli italiani sono intrappolati nella continuità nella medietà e vivono una sorta di sindrome da galleggiamento. Mi può spiegare meglio?
«Il Paese si muove senza incorrere in capitomboli rovinosi nelle fasi recessive, come per esempio l’anno nero della pandemia, e senza compiere scalate eroiche nei cicli positivi. Cioè nel medio periodo tutti i principali indicatori, che sia il Pil, i consumi delle famiglie, gli investimenti, l’occupazione o l’esportazione, tendono a ruotare intorno ad una linea di galleggiamento. Saremmo tentati a ricordare il 2024 come l’anno dei record, abbiamo avuto il record degli occupati (24 milioni) e del turismo estero, ma anche record negativi come quello della denatalità, del debito pubblico e dell’astensionismo elettorale, ma non ci possiamo fermare a questi eventi congiunturali. Se li collochiamo nell’alveo dei processi lunghi, di trasformazione della società, l’immagine più fedele del Paese è quella appunto di una sindrome italiana in cui siamo intrappolati in una medietà che per certi versi potremmo ritenere confortante, per altri no. Mi riferisco al ceto medio: negli ultimi vent’anni i redditi si sono ridotti del 7% e nell’ultimo decennio anche la ricchezza netta pro-capite è diminuita del 5,5%. L’85,5% degli italiani ormai è convinto che sia molto difficile salire nella scala sociale. All’erosione dei percorsi di ascesa economica e sociale del ceto medio corrisponde una crescente avversione ai valori costitutivi dell’agenda collettiva del passato: il valore irrinunciabile della democrazia e della partecipazione, il conveniente europeismo, il convinto atlantismo. Il tasso di astensione alle ultime elezioni europee ha segnato un record nella storia repubblicana: il 51,7%, mentre alle prime elezioni dirette del Parlamento europeo, nel 1979, l’astensionismo si fermò al 14,3%. Si rischia di incrinare la fiducia nelle moderne democrazie liberali di dare risposta alle aspettative sociali. Mai come in questo periodo c’è una fascinazione ad esempio per le democrazie illiberali. Questo è un problema italiano ma che sta investendo tutte le società europee occidentali».

Consigliere delegato Censis Massimiliano Valerii (foto ufficio stampa)
Me lo accennava prima: vi preoccupa molto la crisi del ceto medio. Perché è quello più vulnerabile oggi?
«Perché si sono interrotti quei potenti processi di mobilità sociale ascensionale che erano costitutivi del nostro tradizionale modello di sviluppo, ovvero quei processi per cui in fondo si era destinati ad un accrescimento sia della prosperità economica sia del posizionamento sociale. Oggi si dice che l’ascensore sociale è bloccato: significa che per le nuove generazioni è diventato molto più difficile percorrere quei processi di miglioramento delle proprie condizioni. Questo perché oggi assistiamo ad un rallentamento strutturale dei tassi di crescita economica. Quest’anno tutte le stime più accreditate convergono nel dire che il Pil aumenterà solo dello 0,5%».
Viviamo quindi in una sorta di paradosso: il Pil non cresce più di tanto ma l’occupazione è a livelli record. Che spiegazione vi siete dati a questi conti che non tornano?
«E’ veramente una condizione paradossale. Per certi versi abbiamo superato i 24 milioni di occupati che non abbiamo mai avuto da quando esistono serie storiche sulle forze di lavoro in Italia, cioè dalla metà degli anni 70, tuttavia non abbiamo una crescita proporzionale dell’economia. Bisogna però specificare che tipo di occupazione si sta generando. Intanto riguarda soprattutto i lavoratori permanenti, cioè dipendenti a tempo indeterminato, ma è un’occupazione che cresce maggiormente tra gli over 50. L’altra considerazione da fare è che si tratta di un’occupazione che si sta generando maggiormente nel terziario, nei servizi e non nel manifatturiero e nell’industria che invece sta vivendo una lunga fase di crisi. Il problema è che il maggiore valore aggiunto per occupato e quindi il maggior contributo al Pil viene proprio dal manifatturiero. Ecco perché alla fine i conti non tornano. Ultima considerazione che voglio fare riguarda il confronto con il resto d’Europa. La distanza tra il tasso di occupazione italiano (siamo ultimi in Europa) e la media europea resta ancora significativa: 8,9 punti percentuali in meno nel 2023. Se il nostro tasso di attività fosse uguale a quello medio europeo, potremmo disporre di 3 milioni di forze di lavoro aggiuntive e se raggiungessimo il livello europeo del tasso di occupazione supereremmo la soglia dei 26 milioni di occupati: 3,3 milioni in più di quelli registrati nel 2023. Come vede, luci ed ombre».
Mancano anche molti professionisti. Qual è il quadro che emerge e perché?
«Questa è diventata una emergenza con cui ogni giorno si confronta il sistema delle imprese. Nel 2023 la quota di figure professionali di difficile reperimento rispetto ai fabbisogni aziendali è arrivata al 45,1% del totale delle assunzioni previste (era pari al 21,5% nel 2017). È aumentato soprattutto il peso delle figure difficili da reperire per esiguità dei candidati: dal 9,7% del totale delle assunzioni previste nel 2017 al 28,4% nel 2023. Innanzitutto c’è da dire che si stanno scaricando sul mercato del lavoro gli effetti della transizione demografica che il Paese sta vivendo, cioè l’esito della lunga stagione di denatalità che abbiamo alle spalle e che ha fatto sì che il bacino della popolazione giovanile si sia molto ridotto. Va poi considerato che le giovani generazioni hanno cambiato in quest’ultimo tempo il valore che attribuivano al lavoro. Nel passato modello di sviluppo il lavoro era lo strumento che sicuramente avrebbe garantito al ceto medio una prosperità economica e quindi un miglioramento delle proprie condizioni sociali. Oggi i giovani non riconoscono questo valore al lavoro, hanno perso la fiducia nel fatto che possa garantire prospettive floride, quindi hanno con il lavoro un rapporto non fideistico. Si lascia un’occupazione con più facilità, anche senza avere una alternativa. D’altronde come dare torto ai giovani: se uno considera la stagnazione che hanno avuto in Italia salari e retribuzioni negli ultimi 30 anni si capisce questo tipo di disincanto. L’Italia è l’unico Paese Ocse che tra il 1990 ed il 2020 ha registrato una diminuzione in termini reali del valore medio lordo delle retribuzioni di quasi il 3%. Nello stesso periodo in territori come la Germania o la Francia le retribuzioni sono aumentate di oltre il 30%, nel Regno Unito di oltre il 40%. Tutto questo scenario sconfortante fa capire bene perché le imprese si trovino di fronte ad una carenza di candidati non solo per quelle categorie intellettuali o ad alta specializzazione ma anche idraulici, elettricisti, cuochi, camerieri, personale medico ed infermieri».
Apriamo la parentesi legata alla ricchezza…Nel vostro report parlate di “imbuto dei patrimoni”, cioè?
«Questo è uno degli effetti della denatalità che mi sembra non sia stato notato da nessuno. A causa della prolungata flessione delle nascite, il numero degli eredi si riduce, quindi in prospettiva le eredità si concentrano., non si dividono. Quale sarà l’effetto psicologico su coloro che sanno di essere destinatari di un atto di successione? Forse una ridotta propensione al rischio imprenditoriale».
Preoccupano guerre e cambiamento climatico. Che futuro ci attende?
«Il ritorno della guerra, alle porte dell’Europa, di trincea, modello novecentesco, è stato non solo uno shock per motivi umanitari ma anche perché ci eravamo illusi che, in ragione della forte interdipendenza raggiunta dalle economie del mondo in virtù dei processi di globalizzazione, la guerra sarebbe stata un lontano ricordo del passato da relegare ai manuali di storia. Se lei pensa al rapporto di interdipendenza tra la Germania e la Russia sul fronte energetico, come si può immaginare un conflitto che spezza questo tipo di relazioni economiche? Più in generale stiamo vivendo un mondo instabile, con forti tensioni geo-politiche. Il futuro dell’Italia è inevitabilmente scritto nel destino di tutte le società europee. E’ l’Occidente che deve ritrovare un proprio posto nel mondo, soprattutto ora che ci siamo risvegliati dall’illusione che il nostro destino fosse di farsi mondo, scopriamo cioè un mondo molto più multipolare e policentrico di quanto avevamo creduto, con nuovi soggetti che si affacciano sulla scena, il famoso Sud globale, che reclama un peso non solo economico ma anche politico a livello internazionale».
Quindi, conclude Valerii, siamo nella fase dello shock per il ritorno della guerra, in un forte spaesamento per questo ridisegno dell’ordine mondiale e non sappiamo ancora quale sarà il futuro e l’assetto che si prefigurerà domani.