Questa settimana Fed e Bce scenderanno in campo per la prima volta nell’era Trump. Domani toccherà alla Banca centrale americana, poi giovedì a quella europea decidere le nuove politiche monetarie. Saranno le prime riunioni del 2025 dopo un 2024 segnato da un abbassamento del costo del denaro per entrambe le istituzioni che hanno mostrato via via il loro lato più “colomba”, vista una inflazione più favorevole. Ora cosa succederà con un Trump al potere che vuole dominare la scena in ogni ambito politico ed economico? Lo abbiamo chiesto a Gabriel Debach, market analyst di eToro.
Donald Trump a Davos ha detto che chiederà tassi più bassi. Riuscirà ad influenzare le politiche monetarie di Fed e Bce?
«È lecito ci siano domande sui rapporti tra Trump e la Fed, ma Powell, nel suo ruolo di pompiere, sarà chiamato a calmare i mercati, ribadendo l’autonomia decisionale della banca centrale. La posizione del neopresidente sul tema dei tassi risuona come un deja-vù che ci riporta direttamente al primo mandato del Tycoon, con il braccio di ferro tra lui e Jerome Powell. Già nella conferenza stampa che ha preceduto la cerimonia di insediamento, Trump si era pronunciato sul tema, riprendendo il mantra secondo cui i tassi d’interesse sarebbero “troppo alti”. Le dichiarazioni a Davos, dunque, non arrivano certo come un fulmine a ciel sereno. Detto ciò, più che con le parole, potrebbero essere i fatti a creare grattacapi alla Fed. Nei verbali dell’ultimo meeting della banca centrale Usa, si è notato l’emergere di alcune preoccupazioni legate alla difficoltà da parte dei policy makers a fare previsioni, data la complessità del contesto. La preoccupazione primaria rimane l’inflazione. Di conseguenza, gli effetti inflattivi dei cambiamenti nelle politiche commerciali e delle vulnerabilità delle catene di approvvigionamento globali potrebbero portare la Fed a riconsiderare i propri piani. E ciò che accade negli Stati Uniti, non rimane oltreoceano. Per la Bce, ignorare la Fed è quasi impossibile. Un euro debole è un’arma a doppio taglio: da un lato sostiene le esportazioni europee, ma dall’altro aumenta il rischio di inflazione importata. L’Europa appare più in bilico: le economie europee chiamano una Bce più a supporto dell’economia, dall’altra le incertezze che arrivano dagli Stati Uniti, amplificate dall’imprevedibilità delle politiche fiscali e monetarie, suggeriscono prudenza. Accontentare tutti è una missione impossibile».
Domani toccherà alla Fed, poi giovedì alla Bce. Quali sono le vostre previsioni in merito? Come si comporteranno? Sono davvero due entità indipendenti come dicono Lagarde e Powell?
«Fed e Bce rimangono entità indipendenti, le cui decisioni si basano su dati economici che vengono influenzati da dinamiche interne ed esterne. Pur rimanendo a sé stanti, quindi, l’impatto delle decisioni dell’una e dell’altra sull’economia potrebbero avere dei riflessi sulle decisioni della controparte. Da una parte, la Fed dovrebbe mantenere il tasso nell’intervallo 4,25%-4,5%, fermandosi dopo tre tagli consecutivi nel 2024. Gli Stati Uniti si trovano a fare i conti con un’economia che sembra un puledro imbizzarrito. I dati sono solidi, a partire dall’indice ISM dei servizi di dicembre a 54,1, ben sopra le aspettative, e anche il mercato del lavoro non si ferma. Eppure, c’è una crepa in questa facciata splendente: il sottoindice dei prezzi ISM è balzato a un massimo quasi biennale di 64,4. Un campanello d’allarme per l’inflazione futura, che non promette tregua. Per questo è probabile che la Fed stia alla finestra. La Bce, di contro, dovrebbe continuare il suo ciclo di tagli dei tassi nel 2025, e il taglio di 25 punti base nella riunione di giovedì è ampiamente previsto».
Come saranno le loro politiche monetarie nelle altre riunioni del 2025? Cosa vi aspettate?
«L’Europa si specchia in un’inflazione che sembra meno temibile a un primo sguardo, con il dato di dicembre all’interno delle attese: +2,4% (come da attese) contro il +2,2% del mese precedente. Una stabilità che, a prima vista, offre un respiro (non sottovalutato dopo le sorprese al rialzo tedesche e spagnole). Ma è solo apparenza. L’inflazione nei servizi e il core CPI restano forti, come radici che si aggrappano al terreno. La presidente della Bce, Christine Lagarde, ha affermato che si prevede che l’inflazione raggiungerà l’obiettivo del 2% quest’anno, offrendo spazio per allentare la politica monetaria e sostenere le economie in difficoltà. Il futuro, però, è nebuloso: un’ombra di stagflazione potrebbe avvolgere il 2025, con crescita debole, inflazione persistente e nuove sfide – dai dazi al rafforzamento del dollaro. Negli Stati Uniti, l’orizzonte non è più limpido di quello europeo, anzi. Dopo i moniti di Trump e le pressioni sul futuro percorso dei tassi, gli investitori monitoreranno attentamente la dichiarazione della Fed per avere informazioni sui suoi piani per il 2025, in particolare dopo che la banca centrale ha indicato a dicembre che sono probabili solo due riduzioni dei tassi durante l’anno».
Quali sono gli elementi macro e geopolitici, oltre ai dazi, che le due Banche centrali terranno d’occhio per prendere le loro decisioni?
«Il nemico primario, in questo momento, rimane l’inflazione: un’inflazione che resiste, come un fuoco lento, sia negli Stati Uniti che in Europa, pone nuove incertezze alle due economie. Le due banche centrali continueranno a monitorare la situazione dazi, ma è difficile che possano fare delle previsioni certe di cosa potrebbe accadere e, quindi, di come dovrebbero reagire».
Secondo voi lo spettro dei dazi, paventato da Trump, nei confronti dell’Ue e della Cina alla fine si concretizzerà?
«Stiamo assistendo a un inizio di secondo mandato fatto di promesse ambiziose e azioni decise. Non è da escludere, quindi, che anche la promessa sui dazi vada in porto, soprattutto considerando come le mosse della Cina sul ramo AI gettino un’ombra sulla spettacolarizzazione del grande piano Stargate, una proposta che punta a mobilitare fino a 500 miliardi di dollari di investimenti dal settore privato per costruire l’infrastruttura necessaria a sostenere la crescita dell’intelligenza artificiale. L’intromissione cinese si chiama DeepSeek, una startup cinese di intelligenza artificiale che, in poco tempo, è diventata l’app gratuita più scaricata su App Store negli USA, superando ChatGPT, e con un investimento di 10 milioni di dollari. Detto ciò, dalla vittoria di Trump, i mercati europei hanno mostrato una vulnerabilità particolare alle sue politiche tariffarie. Questo non sorprende, dato che l’Unione Europea è uno dei principali attori del commercio globale, rappresentando circa il 17% delle esportazioni e il 15% delle importazioni mondiali. Osservando i dati storici, tuttavia, notiamo come tra il 2016 e il 2023 il commercio tra UE e Stati Uniti abbia mostrato una tendenza al rialzo, con un saldo commerciale in crescita da +113,6 miliardi di euro nel 2016 a +151,9 miliardi di euro nel 2020, fino a raggiungere +155,8 miliardi di euro nel 2023. Questi numeri mostrano che, nonostante l’imposizione di dazi e le tensioni commerciali durante l’amministrazione Trump (2017-2020), il saldo commerciale è rimasto positivo e ha persino continuato ad aumentare. I dazi hanno avuto impatti su alcuni settori specifici, ma il commercio complessivo non è stato drasticamente penalizzato come molti temevano. Ci sono state conseguenze meno visibili, ma altrettanto rilevanti. L’innovazione e il reshoring, per esempio, sono stati in parte accelerati dalle tensioni commerciali. Aziende del settore tecnologico hanno diversificato la produzione fuori dalla Cina, investendo in mercati emergenti come il Vietnam e l’India, mentre altre hanno riportato produzioni negli Stati Uniti per ridurre la dipendenza da fornitori esteri. Questo fenomeno, benché positivo per alcune economie locali, ha contribuito a riallineare le catene di approvvigionamento globali, creando opportunità, ma anche nuove vulnerabilità. La campagna statunitense contro Pechino, inoltre, ha portato la Cina ad accelerare i suoi piani di autosufficienza economica e tecnologica, come dimostra, tra le altre cose, la recente decisione di Xiaomi di sviluppare un proprio chip per ridurre la dipendenza dall’industria americana dei semiconduttori. Parallelamente, la Cina ha rafforzato le relazioni commerciali con nuovi partner strategici, come attraverso la firma del Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), il più grande accordo di libero scambio al mondo, che coinvolge paesi come Giappone, Corea del Sud e Australia. Inoltre, il rafforzamento dell’alleanza dei BRICS, con l’ingresso di nuovi membri, sottolinea la volontà della Cina di costruire un sistema economico multilaterale alternativo».
I dazi, conclude Debach, sono stati, e continuano ad essere, una questione divisiva. Mentre gli effetti immediati spesso si traducono in volatilità e riallocazioni settoriali, la loro portata a lungo termine dipende dall’intensità e dalla durata delle tensioni commerciali. Gli investitori farebbero bene a ricordare che i dazi, sebbene rumorosi, non sempre portano ai danni temuti. Ma come la storia insegna, è l’imprevisto – il vero “cigno nero” – a riscrivere davvero le regole del gioco.