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Economia

Le Big Tech e le tasse (small) che pagano

Rossana Prezioso
20 Febbraio 2025
Le Big Tech e le tasse (small) che pagano
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Un divario che si è accentuato con la fase pandemica quando tutto il mondo ha dovuto “trasferirsi” nel mondo parallelo della Rete

Le chiamano Gafam (Google, Apple, Meta, Amazon e Microsoft) e rappresentano il gotha delle grandi multinazionali del settore tecnologico. Possono vantare introiti che a volte superano il prodotto interno lordo di intere nazioni e capitalizzazioni di mercato da record, eppure, spesso, pagano meno tasse di una PMI italiana. Il trucco sta semplicemente nel prendere la sede fiscale in un paese con tassazione agevolata operando, però, in altre nazioni. Il risultato? Capitali in arrivo da tutto il mondo a fronte di un quadro fiscale particolarmente vantaggioso. Troppo. Un divario che si è accentuato con la fase pandemica ovvero quando tutto il mondo ha dovuto fermarsi di fronte alla diffusione del Covid e “trasferirsi” nel mondo parallelo della Rete.

Il caso Google e il Fisco italiano

L’ultimo esempio in ordine di tempo si è visto in Italia proprio in questi giorni. Notizia recente è il pagamento al Fisco italiano, da parte di Google di 326 milioni per chiudere un contenzioso che riguardava gli anni dal 2015 al 2019. Da qui la richiesta di archiviazione da parte della procura di Milano, che indagava per evasione fiscale sulla Google Ireland Limited. Si tratta del secondo pagamento che coinvolgeva l’azienda a capo del motore di ricerca più famoso al mondo. Infatti risale al 2017 un altro pagamento di 306 milioni che di fatto chiudeva le pendenze tributarie dei 15 anni precedenti.

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Da quanto appreso, durante le indagini era emersa “l’omessa presentazione delle dichiarazioni annuali dei redditi prodotti in Italia e l’omessa presentazione delle dichiarazioni annuali di sostituto d’imposta, relativamente alle ritenute che Google Irl avrebbe dovuto applicare sulle royalties corrisposte alle società estere appartenenti al medesimo Gruppo, in ragione dell’utilizzo e sfruttamento, da parte della stabile organizzazione, di tutti i programmi, algoritmi, marchi e proprietà intellettuali costituenti, nel loro complesso, la tecnologia Google“.

Ma questo è solo un caso, per quanto emblematico, della situazione italiana ed internazionale.

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La situazione internazionale

Già nel 2019 l’OCSE aveva annunciato la volontà di risolvere il problema con una roadmap che disegnava le varie fasi attraverso cui risolvere le discrepanze della transizione alla economia digitale. Ancora prima, nel 2018 l’Unione Europea non solo evidenziava un’asimmetria fiscale fra aziende digitali che pagavano una media del 9,5% di tasse ed industrie tradizionali che arrivavano al 23,2% (ovviamente con differenze sostanziali all’interno di ogni realtà nazionale) ma sottolineava la necessità di prendere provvedimenti comuni.

Del 2021 la dichiarazione, da parte del G7, di puntare ad una tassazione di almeno il 15% per tutte le multinazionali, incluse quelle digitali a prescindere dalla loro sede fiscale. Una percentuale che, per molti, non solo è più bassa di quella necessaria ma che deve anche combattere con lacune cognitive, legislative e amministrative.

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E in Italia?

Molte sono le analisi che evidenziano come Roma e il suo sistema di tassazione tenda a penalizzare le PMI rispetto alle Big Tech. Infatti, secondo quanto attestato dall’Area Studi di Mediobanca, sugli imprenditori grava un tax rate effettivo che sfiora il 50% contro il 36% delle Big Tech.
Non differiscono nemmeno i risultati della Cgia di Mestre che indicano una pressione fiscale per le PMI pari a 24,6 miliardi di euro contro i 206 milioni pagati dai 25 grandi colossi del web con sede in Italia, un risultato che evidenzia anche i limiti della “Global Minimum Tax”.

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L’analisi della Cgia

Sebbene la stessa Cgia veneta ammetta che la comparazione non ha alcun rigore scientifico, si nota come le aziende italiane prese in esame presentino un fatturato annuo 90 volte superiore a quello riconducibile alle big tech, con pagamenti che sono però superiori di 120 volte più delle seconde. Non solo, ma stando ai numeri citati dallo studio di Mestre e che si rifanno al Servizio Bilancio dello Stato della Camera, “il gettito previsto dalla sola applicazione dell’aliquota del 15% sulle multinazionali sarà molto contenuto”. Tradotto in numeri si prevede un 2025 in cui il Fisco italiano incasserà incasserà 381,3 milioni di euro, che diventeranno 427,9 nel 2026 mentre nel 2027 raggiungerà i 432,5. Solo nel 2033 si potrebbero intravedere i 500 milioni di euro. A questo si aggiunge un’altra disparità: Estonia, Lettonia, Lituania, e Malta hanno potuto ottenere una proroga aderendo alle nuove regole solo nel 2030. Il che porta ad un altro paradosso che è evidenziato sempre dalla Cgia: molti grandi player italiani spostano la loro sede amministrativa in una nazione con una legislazione societaria, oltre che fiscale, favorevole.

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E c’è chi lascia

C’è poi chi, come Groupon, la piattaforma di sconti per acquisti, che ha deciso, a causa di unna serie di dispute con l’Agenzia delle Entrate, di abbandonare il mercato italiano. In particolare l’AdE chiede un versamento di imposte, sanzioni e interessi per un totale di 141 milioni di euro con il taglio di posti di lavoro per i 33 dipendenti.

FOTO: shutterstock
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