Li chiamano i magnifici diciassette e sono quegli elementi delle tavola periodica che il chimico norvegese Victor Moritz Goldschmidt scoprì all’inizio del 1900 anche se la prima scoperta di REE Rare Earth Elements (REEs) risale al 1787 ad opera del tenente svedese Carl Axel Arrhenius. Fu lui a rilevare un minerale dal quale solo nel 1803, venne isolato il Cerio. Successivamente vennero individuati altri elementi che saranno chiamati Terre Rare o Rare Earth Elements. Sebbene il gruppo sia diventato in questi ultimi tempi piuttosto famoso, i membri che lo compongono, presi singolarmente, sono al limite dell’anonimato. In pochi hanno infatti sentito parlare dei lantanoidi, ovvero la famiglia a cui appartengono il neodimio (Nd), il terbio (Tb), il disprosio (Dy), l’erbio (Er) e il samario (Sm). I REEs Si dividono in Terre Rare Leggere e Terre Rare Pesanti e, a differenza di quanto il nome potrebbe suggerire, non sono terre ma metalli. Per di più non sono nemmeno rari nel senso stretto del termine. Anzi, sono abbondanti. Ad essere rari sono i giacimenti caratterizzati da due discriminanti principali: possedere terre rare pesanti ed essere economicamente sfruttabili. Infatti le terre rare, per essere utili ai fini industriali, devono essere sottoposte ad un lungo processo di purificazione.
La lungimiranza cinese
Per ampliare la visuale all’intera famiglia, è sufficiente dire che i suoi membri sono elementi essenziali per la costruzione delle fibre ottiche (comprese quelle sottomarine coprono distanze chilometriche), dei microfoni all’interno degli smart phones, degli schermi TV. Sono anche presenze indispensabili nei sonar, nei radar e in altre applicazioni a scopo civile (basti pensare alle classiche batterie per le auto elettriche) e militare (non ultimi i caccia F-35).
Un universo tanto sconosciuto quanto indispensabile sia nell’economia reale che nella vita di tutti i giorni. Un universo da cui dipende ogni singolo campo dell’industria di ogni singola nazione (cosa sarebbero Apple, Samsung e Nvidia senza le terre rare?) e che ha trovato un nuovo impulso grazie alla “green technology”. MA soprattutto un universo di cui la lungimiranza cinese ha da tempo preso il controllo. Leggenda vuole, infatti, che sia stato il leader cinese Deng Xiaoping a pronunciare la frase “ Se il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare”. Era il 1987 e il concetto, ma soprattutto le rispettive applicazioni, erano ancora lontane dall’essere note anche agli addetti ai lavori. Ma non a Pechino che, con incredibile anticipo sulla concorrenza mondiale, ha preso il controllo dell’intera filiera, controllo che va dall’estrazione mineraria allo stoccaggio, passando per tutte le fasi della produzione e della distribuzione internazionale.
La lentezza del resto del mondo
Già nel 1990 il Governo popolare centrale aveva classificato le terre rare come “minerali protetti e strategici” escludendo, di fatto, ogni presenza di aziende straniere, nel processo di lavorazione. La stessa denominazione, poi, poneva il settore e tutto il suo know how sotto le leggi del segreto di stato con arresto e condanna per chiunque avesse rivelato informazioni. La strategia, poi, ha visto un controllo sempre più stretto sia nelle quantità esportate (previa autorizzazione delle autorità centrali) sia degli attori che ruotavano intorno alla filiera oltre che della burocrazia per riuscire a sfruttarne le potenzialità.
Negli ultimi decenni, poi, Pechino ha ottimizzato non solo l’organizzazione delle imprese operanti nel settore ma anche le tecnologie e gli standard produttivi acquistando anche raffinerie di terre rare a capitale estero in mano, precedentemente, ad aziende straniere. Una mossa strategica che permette a Pechino il controllo diretto sulla produzione e sul raffinamento.
E gli altri? Il piano programmatico dell’Unione Europea sulla materia risale al 2010 con la Raw Materials Initiative e, nel 2014 con il Critical Raw Materials Report affiancando l’Erecon (European Rare Earth Competency Network) ad un percorso che è sfociato nel Regolamento (UE) 2024/1252 del Parlamento Europeo e del Consiglio, dell’11 aprile 2024 per garantire anche al Vecchio Continente un approvvigionamento adeguato. Ma si tratta, come spesso accade per l’Europa, di una serie di intenti che non prevede una strategia comune.
Dagli USA all’Europa, una corsa molto lunga
Anche gli USA, a livello normativo e anche in vista di una competizione con la Cina che cammina di pari passo con la guerra dei dazi, sono partiti in ritardo. È stata l’amministrazione Biden a giugno del 2022 a dare vita alla Minerals Security Partnership che punta a rafforzare le catene di approvvigionamento in vista della transizione energetica. Una transizione energetica che, come prima conseguenza, ha portato con s anche una serie di agevolazioni fiscali per tutte le aziende, anche straniere, che avessero deciso di investire negli USA. Ma quando si parla di Minerals Security Partnership si ha a che fare, come è facile dedurre dal nome, di una serie di alleanze che chiamano in causa oltre ai singoli paesi (tra questi Svezia, Australia, Canada, Finlandia, Norvegia, Francia, Giappone, Gran Bretagna) anche le nazioni che registrano la presenza di giacimenti (molti africani come Repubblica Democratica del Congo, Mozambico, Namibia, Tanzania e Zambia) e l’Unione Europea.
L’autosufficienza, oltre che la piena ottimizzazione di processi di produzione e purificazione spesso lunghi, complessi e costosi anche in termini di tempo, è ancora lontana. Un’opzione, allo stato dei fatti, è rappresentata dal recupero e riciclo di materiali già usati. Ma anche in questo casi si tratta di un processo lungo. Infatti una possibile filiera di recupero potrebbe essere attiva solo nel 2045.