Donald Trump non ha atteso la proclamazione ufficiale e, forte di un vantaggio difficilmente colmabile, è salito sul palco definendosi il 47esimo presidente degli Stati Uniti già durante lo spoglio delle schede. Ma anche se la matematica gli darà inevitabilmente ragione, il percorso che lo vedrà arrivare alla Casa Bianca è ancora lungo. O per meglio dire, l’iter burocratico che attende il tycoon come, a suo tempo, ha atteso tutti gli altri presidenti.
Sebbene Trump, questa volta, abbia conquistato il voto popolare, cosa che nel 2016 non gli riuscì arrivando invece alla Casa Bianca grazie al sistema dei Grandi Elettori, saranno questi ultimi a decretarne la vittoria ufficialmente. Alla fine di un lungo processo.
Chiusi i seggi si assisterà, ad un incontro fra lo staff del vecchio presidente (Joe Biden) e quello del nuovo (Trump) in agenda per l’11 novembre. Nel frattempo i comitati elettorali si riuniranno in ognuno dei 50 stati della federazione per certificare i risultati del voto. Anche in questo caso le diversità di regole da uno stato all’altro gioca un ruolo interessante. Infatti a parte Wisconsin ed Arizona, che possono comunicare i risultati anche ad inizio dicembre, la deadline prevista per le comunicazioni non dovrebbe andare oltre la fine di novembre. Come è noto, la regola prevede che il numero totale dei grandi elettori del singolo stato venga assegnato a chi ha ricevuto più voti.
Step successivo: la pubblicazione, prevista per l’11 dicembre, dei nomi dei Grandi Elettori che dovranno essere, in tutto, 538. E si arriva, così, al 17 dicembre data in cui i Grandi Elettori si riuniranno ed ognuno di loro voterà a scrutinio segreto il nome di presidente e vice che sono stati scelti dal voto popolare dello stato di appartenenza. Raccolti i risultati, saranno inviati al Senato entro il 25 dicembre. A contarli sarà il Congresso, il 6 gennaio in seduta plenaria, mentre il vicepresidente in carica si occuperà del passaggio di consegne (l’assalto a Capitol Hill del 2021 avvenne proprio in questa occasione). Da ricordare che il Congresso, da queste ultime votazioni, può contare su una maggioranza repubblicana in entrambe le camere. Ultimo passo da compiere, il giuramento. Siamo arrivati al 20 gennaio con l’Inauguration Day, quando Donald Trump giurerà (perla seconda volta) fedeltà alla Costituzione degli Stati Uniti a Capitol Hill, la sede del Congresso.
Da quel momento in poi potrebbero cambiare molte cose. Sono molti, infatti, i dossier che si riaprirebbero con il ritorno di Trump alla Casa Bianca, primo fra tutti quello dei dazi. Premettendo che, come in ogni democrazia che si rispetti, non è il presidente a decidere ma il Congresso (a maggioranza repubblicana) bisogna distinguere dalle possibili conseguenze sul fronte interno e su quello esterno. Parlando di dazi non si può non pensare alla guerra commerciale contro la Cina, guerra che però, il tycoon proclamò a suo tempo anche contro l’Europa. Possibili rischi protezionistici potrebbero portare Pechino ad accelerare le misure per lo stimolo della domanda interna ma anche per la produzione in casa di quegli elementi sempre più essenziali (in primis i microchip) per le infrastrutture militari e tecnologiche. Inoltre un rischio dazi effettivo potrebbe portare ad un rialzo dei prezzi a livello mondiale e, quindi, ad un ritorno dell’inflazione. Non da escludere che le banche centrali, attualmente orientate verso una strategia di allentamento, siano costrette a rinunciarvi, ritornando a politiche restrittive. Guardando alla Federal Reserve, ad esempio, non sono da escludere momenti di tensione tra il futuro presidente Trump e l’attuale governatore Powell, tensioni che si sono manifestate già in passato.
C’è, poi, la questione petrolifera che, a sua volta, si intreccia direttamente con quella dei dazi. I produttori di petrolio statunitensi si aspettano che sotto la presidenza di Donald Trump la produzione di greggio sarà meno regolamentata, il che si tradurrà in una maggiore offerta di petrolio e di conseguenza in prezzi più bassi. Purtroppo, però, lo stesso Trump ha già fatto sapere che una delle sue intenzioni sarà quella di imporre sanzioni anche sui barili iraniani e venezuelani. A tutto discapito dell’offerta che, quindi, sul mercato globale potrebbe restringersi, con un potenziale aumento dei prezzi. Ma la presenza di dazi potrebbe, come detto, far aumentare i prezzi rallentando la crescita, erodendo il potere d’acquisto e, di fatto, tagliando la domanda di petrolio.
La produzione di petrolio e gas degli Stati Uniti ha raggiunto livelli record sotto l’amministrazione Biden, che ha gradualmente cambiato il suo approccio al settore nonostante la campagna elettorale basata su promesse di tutela ambientale. Attualmente gli Stati Uniti sono sia il più grande produttore di petrolio al mondo (22% del totale globale, secondo fonti EIA), davanti persino all’Arabia Saudita (11%), sia il più grande consumatore. Un vantaggio energetico da non perdere.
Da controllare, poi, anche lo scacchiere internazionale. Se la Cina, come pare abbia fatto, ha creato una rete parallela di alleanze con Iran e Russia basata, tra le altre cose, sul sentimento anti-occidentale, è anche vero che questa stessa rete resta nell’ombra e sullo sfondo della supremazia internazionale ancora a stelle e strisce. Altro fronte economicamente delicatissimo per Washington è l’Indo-Pacifico dove Trump, per assicurarsi l’alleanza con Taiwan, potrebbe rafforzare il già ampio schieramento di missili e la presenza militare statunitense.