
L’82% delle Pmi sono ripartite ma nella ristorazione si è persa un’azienda su 4
Il 28% delle imprese che ha riaperto è a rischio chiusura definitiva e tutto questo a causa delle difficili condizioni di mercato, dell’eccesso di tasse e burocrazia e della carenza di liquidità. A dirlo è un’indagine di Confcommercio, in collaborazione con Swg, svolta sulla base dei dati delle prime due settimane di ripartenza. Delle quasi 800 mila imprese del commercio e dei servizi di mercato che hanno potuto riaccendere i motori l’82% ha rialzato la saracinesca, il 94% nell’abbigliamento e calzature, il 73% dei bar e ristoranti, a conferma delle gravi difficoltà delle azienda del settore food, soprattutto dopo che molti lavoratori hanno smesso di andare fisicamente in azienda e lavorano già da qualche tempo in smart working.
Da segnalare, in modo negativo, che il 18% delle imprese che potevano riaprire non l’ha ancora fatto; questa percentuale sale al 27% nell’area bar e ristoranti. I motivi della mancata riapertura riguardano soprattutto l’adeguamento dei locali ai protocolli di sicurezza sanitaria. La stima delle perdite di ricavo rispetto ai periodi normali per oltre il 60% del campione è superiore al 50%, con un’accentuazione dei giudizi negativi nell’area del food&beverage, segmento dove si concentrano maggiormente perdite anche fino al 70%. L’accesso ai provvedimenti di sostegno riflette le problematiche delle micro-imprese durante il lockdown. Gli indennizzi (come il bonus dei 600 euro) sono ovviamente i più diffusi e ne avrebbe fruito già il 44% delle imprese. La cassa integrazione appare, invece, sottoutilizzata in ragione della distribuzione delle imprese per numero di addetti schiacciata verso le ditte individuali. Infatti, solo due quinti delle micro-imprese presenta addetti e, quindi, solo questa frazione avrebbe avuto necessità della Cig in deroga.
Le imprese di minori dimensioni, avendo perso per oltre 2 mesi quasi il 100% del fatturato non hanno convenienza a contrarre ulteriori prestiti i quali andrebbero ripagati con un reddito futuro la cui formazione appare oggi molto incerta. “Purtroppo, le valutazioni conclusive sono fortemente negative. Fin qui, nell’esplorazione delle due indagini, svolte a distanza di una settimana, emerge una significativa oscillazione dei giudizi tra la voglia di tornare a fare business e percezioni piuttosto cupe sull’andamento dei ricavi, il tutto condito da un esplicito orientamento delle imprese volto a smussare l’impatto delle difficoltà e dei problemi“, segnala Confcommercio. Se nella prima settimana solo il 6% degli intervistati indicava un’elevata probabilità di chiusura dell’azienda, nella seconda ondata di interviste, a fronte di un ragionamento più articolato, il 28% afferma che, in assenza di un miglioramento delle attuali condizioni di business, valuterà la definitiva chiusura già nei prossimi mesi. Ad avvalorare questa triste decisione ci sono i timori che nel prossimo futuro si dovrà comunque richiedere un prestito, non si riuscirà a pagare i fornitori né a sostenere le spese fisse.
Il vero dilemma per molti imprenditori non è riaprire subito o dopo un breve periodo di sperimentazione, bensì riuscire a restare aperti nel medio-lungo termine. Sotto il profilo macroeconomico, il peggio è certamente passato. Tuttavia, avverte Confcommercio, per molte imprese, concentrate in pochi settori a cominciare dalla filiera turistica, le sfide per la sopravvivenza si combatteranno nei prossimi mesi.
di: Maria Lucia PANUCCI
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