Lo scorso venerdì 10 gennaio sono arrivate le 10 offerte vincolanti per l’acquisizione di Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria, l’ex Ilva, di cui 3 per l’intero gruppo e 7 per singoli, specifici asset.
Oggi 13 gennaio entra nel vivo il lavoro di analisi delle stesse offerte da parte dei commissari, che durerà per circa una settimana. Se ci vorrà, come hanno detto i commissari di AdI, Fiori, Quaranta e Tabarelli, un “tempo congruo” per l’analisi dettagliata di ciò che è stato proposto, tuttavia l’esame delle offerte da parte della struttura incaricata è già cominciato.
ex Ilva, i commissari esaminano le 10 offerte per l’acquisizione
Di quest’ultima fanno parte gli esperti di Boston Consulting, gli avvocati di Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria (gestore degli impianti) e di Ilva in amministrazione straordinaria (proprietaria degli impianti) e i tecnici del ministero delle Imprese.
Anzitutto il piano industriale e come si attuerà la decarbonizzazione della produzione. E poi il piano dell’occupazione: quante persone si intendono assumere.
Si chiede infatti l’espresso impegno a proseguire le attività imprenditoriali acquisite per almeno un biennio e a mantenere dei livelli occupazionali che saranno individuati.
Oggi i dipendenti sono circa 10mila, di cui 8mila a Taranto, indotto escluso, e la cassa integrazione straordinaria, valevole tutto il 2025, è autorizzata per 4.050 unità di cui 3.500 a Taranto, anche se in cassa sono effettivamente meno persone.
Stando a quanto si apprende, bisognerà capire come allineare le offerte partendo dalle tre che riguardano tutta AdI. Per allineare si intende vedere i punti forti e l’aderenza delle proposte a quanto i commissari hanno chiesto nel bando di gara lanciato a fine luglio.

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Anche oggi fonti vicine al dossier hanno manifestato soddisfazione per i risultati ottenuti alla scadenza del 10 gennaio relativamente al deposito delle offerte vincolanti, sostenendo che non era affatto scontato che arrivassero 10 proposte in totale. candidarsi per l’intera Acciaierie sono stati Baku Steel Company CJSC e Azerbaijan Investment Company OJSC; Bedrock Industries Management Co Inc; Jindal Steel International.
Mentre per i singoli asset di AdI sono arrivate sette offerte: la cordata Car Segnaletica Stradale srl, Monge & C. spa e Trans Isole srl; la cordata Eusider spa, Marcegaglia Steel spa e Profilmec spa; la cordata Marcegaglia Steel spa e Sideralba SpA; eppoi le aziende Eusider spa, I.M.C. spa, Marcegaglia Steel spa e Vitali spa. Nell’iter per la cessione ad un nuovo privato, il bando di gara prevede anche l’eventuale miglioramento delle offerte con i rilanci, a cui seguiranno l’individuazione della migliore offerta vincolante, una fase di negoziazione in esclusiva con il relativo soggetto offerente per l’implementazione dell’operazione per arrivare infine alla sottoscrizione della documentazione contrattuale di vendita.
ex Ilva, i nomi di chi ha presentato le offerte vincolanti: tre colossi stranieri in gara
Il nuovo proprietario di Acciaierie d’Italia non sarà italiano. O meglio, è molto probabile che non lo sia. Solo tre gruppi si sono ufficialmente fatti avanti per l’intero polo siderurgico: la cordata azera composta da Baku Steel Company e Azerbaijan Investment Company, gli indiani di Jindal Steel International e il fondo americano Bedrock.
I termini per presentare le offerte vincolanti, dopo il rinvio di fine novembre, sono scaduti ieri 10 gennaio e ora i commissari straordinari, Giovanni Fiori, Giancarlo Quaranta e Davide Tabarelli, stanno esaminando le proposte.
«La partecipazione così significativa di grandi attori internazionali conferma che siamo sulla strada giusta per il rilancio della siderurgia italiana», lo ha detto il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, in merito alla presentazione delle offerte.
«Questa è la fase decisiva. Responsabilità, coesione e unità di intenti» ha concluso il ministro.
La procedura di vendita
Oggetto dell’acquisizione sono i beni e le attività aziendali di Ilva e Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria, nonché delle altre società appartenenti ai rispettivi gruppi (quali Ilva Servizi Marittimi, Ilvaform, Taranto Energia, Socova, Adi Energia, Adi Servizi Marittimi, Adi Tubiforma e Adi Socova).
L’obiettivo indicato dal governo Meloni è quello di evitare una cessione «spezzatino» e vendere tutti gli asset riconducibili ad Acciaierie d’Italia ad un unico acquirente.

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Rispetto alle offerte pervenute la rosa è formata da tre nomi: la cordata azera composta da Baku Steel Company e Azerbaijan Investment Company, gli indiani di Jindal Steel International e il fondo americano Bedrock.
Nel bando di gara sono indicati cinque obiettivi che il nuovo proprietario dovrà perseguire: sviluppare la produzione siderurgica in Italia (anche tramite sinergie con altri comparti industriali), attuare la decarbonizzazione, tutelare i livelli occupazionali, prevedere attività e forme di compensazione in favore delle comunità locali e preservare la continuità dei complessi aziendali.
Piano industriale per rilanciare l’ex Ilva prevede 1,8 miliardi di investimenti
Quando i commissari straordinari sono arrivati in Acciaierie d’Italia (il 1 marzo 2024) la società presentava 199 milioni di euro di perdite relative ai soli mesi di gennaio e febbraio, 3,5 miliardi di passività correnti e un patrimonio netto negativo per 40 milioni.
Per rimettere in sesto la produzione il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha affidato ai commissari il compito di realizzare e avviare il Piano di Ripartenza per il gruppo.
Piano industriale 2024-2030
Il piano industriale persegue tre obiettivi prioritari: il raggiungimento del punto di pareggio economico nel più breve tempo possibile; la salvaguardia dei livelli di occupazione; la riduzione delle emissioni di CO2 dei processi produttivi.

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Nelle proiezioni economiche del piano si prevede che l’ebitda post riduzione delle emissioni di CO2 dei processi produttivi si attesti a 532 milioni con un ebitda margin del 9%.
Il fatturato lordo al 2030 è previsto di 5,943 miliardi e il margine di contribuzione è visto a 1,537 miliardi. Gli investimenti previsti nell’arco del piano industriale sono pari a circa 1,8 miliardi, di cui 1 miliardo per il solo biennio dell’amministrazione straordinaria.
Questa la stretta attualità, ma come siamo arrivati a questo punto?
Storia politica della crisi ex Ilva
Nessun politico è d’accordo su quale sia il motivo della crisi decennale dell’ex Ilva di Taranto, la più grande acciaieria italiana. C’è chi punta il dito contro gli amministratori locali e una parte dei sindacati, che non sarebbero interessati a tenere aperta l’azienda.
Altri danno la colpa ad ArcelorMittal, accusata di volere il fallimento dello stabilimento, altri ancora alla politica, che non ha capito in tempo le intenzioni della multinazionale siderurgica.
In questi anni su Taranto e sull’ex Ilva sono stati spesi fiumi di parole. Dal 1959, quando la fabbrica ancora non esisteva e Taranto sembrava a Pier Paolo Pasolini «un gigantesco diamante in frantumi», fino agli anni Duemila, quando il giornalista e scrittore tarantino Alessandro Leogrande ha ripercorso decenni di industrializzazione caotica per capire come aveva fatto la città pugliese, un tempo piena di vita, a diventare il simbolo dell’inquinamento mortale di un intero Paese.
In mezzo altre parole, da quelle di speranza pronunciate dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat all’inaugurazione dell’Ilva nel 1965 – in cui lo Stato prendeva «effettivamente e seriamente coscienza della realtà meridionale», a quelle di Walter Tobagi, che negli anni Settanta definì «metalmezzadri» gli ex braccianti pugliesi ora operai dell’acciaio, passati in pochi anni dai campi agli altiforni.
Negli ultimi vent’anni politici di tutti gli schieramenti hanno detto la loro sulla città e la fabbrica che la sovrasta. Qualche esempio: «Per Taranto e per l’Ilva riparte la speranza» (Matteo Renzi, 2015). «In tre mesi abbiamo risolto la crisi dell’Ilva» (Luigi Di Maio, 2018). «Daremo il sangue per Taranto» (Matteo Salvini, 2019). «Su Ilva rivendico quanto fatto» (Carlo Calenda, 2020).
Da confrontare con: «Questi che ci governano non sono cialtroni: sono semplicemente pazzi» (Matteo Renzi, 2019). «Abbiamo scoperto il delitto perfetto» (Luigi Di Maio, 2018).
«Al governo sull’Ilva abbiamo pericolosi incapaci» (Matteo Salvini, 2019). «Non puoi usare le fabbriche come spot elettorale» (Carlo Calenda, 2024).
Fino a qualche anno fa ogni partito sembrava avere in tasca la soluzione al problema: alcuni proponevano di chiudere la fabbrica, altri di venderla, altri ancora di nazionalizzarla.
Dopo che tutti i partiti sono stati alla guida del Paese e lo stabilimento è in crisi da dieci anni, molti politici preferiscono individuare altri colpevoli.
Di sicuro i problemi dell’ex Ilva, tra cui figurano gli oltre tre miliardi di euro di debiti di cui si parla in questi giorni, non sono mai stati risolti anche per i continui cambi di strategia compiuti dai vari governi a partire dal 2012, quando la fabbrica fu posta per la prima volta sotto sequestro.
ex Ilva: come siamo arrivati fin qui
Esattamente un anno fa andava in scena uno degli atti più drammatici della storia dell’acciaieria più grande e discussa d’Italia. Con l’incontro del 8 gennaio del 2024 a Palazzo Chigi tra il governo e Adytha Mittal che si chiudeva con una rottura.
I soci indiani di Mittal non si sono mostrati disponibili per ulteriori investimenti sull’acciaieria di Taranto (era stato chiesto un aumento di capitale sociale di 320 milioni, utile per concorrere all’aumento al 66% della partecipazione del socio pubblico).
La storia di Ilva è la tipica storia italiana in cui si parte da una grande intuizione ma che presto per l’incapacità di sommare le energie e conciliare le esigenze, si trasformerà in un disastro.
Giustizialismo, sindrome del No, approssimazione della politica, populismo disfattista. L’acciaieria di Taranto è la summa dei problemi incrostati d’Italia.
L’Ilva è lo specchio di un paese in guerra contro sé stesso, scrive Marco Bentivogli, segretario generale della Fim Cisl dal 2014 al 2020. Bentivogli si è occupato di siderurgia dal 2008.

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L’anno precedente era stato un anno importante per il settore: fu l’anno record per la domanda mondiale d’acciaio. La siderurgia è il settore primario del manifatturiero e per il nostro paese perdere, dopo l’alluminio, anche la produzione di acciaio significa perdere sovranità industriale.
Per questo la storia di Ilva è importante ma riflette anche tutte le contraddizioni del nostro paese.
Le motivazioni dell’assoluzione di Riva riscrivono la storia dell’Ilva
L’Italia è l’unico paese avanzato ad aver lasciato che una grande acciaieria a ciclo integrato a caldo subisse espropri e commissariamenti giudiziali dei suoi impianti e dei suoi semilavorati, nonché dei conti e patrimoni aziendali e di quelli di ogni suo ex socio privato, con governi fermati dalle impugnative giudiziarie tutte le volte che hanno provato a contenere i fermi giudiziali.

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L’esito è non aver saputo individuare in così tanti anni una strada solida per fare punto a capo, e non perdere acciaio da altoforni.
Dopo undici anni di agonia dall’inizio dei sequestri giudiziali, l’azienda muore di asfissia. Il fallimento delle intese grilline dovrebbe portare a esperire le strade legittime per disimpegnare Mittal e aprire a chi voglia davvero investire su rilancio e decarbonizzazione.
La vicenda dello scudo penale tolto dal governo Conte, che poi cambiò in gran segreto gli accordi parasociali stralciando la riassunzione degli operai in esubero in Ilva in As.
Che ovviamente rimarranno in Cigs fino alla pensione, dato che nessun governo si prenderà la responsabilità di lasciarli senza stipendio, neppure quelli che si vantano di abolire il Reddito di cittadinanza e poi ne mantengono uno a vita e con il doppio del salario.
Che poi è la ragione per cui il M5s anziché chiudere l’Ilva come promesso, ha preferito far entrare lo stato causandone una lenta agonia.
Così quest’anno, quando si spegneranno anche i due altoforni arrivati a fine ciclo, resteranno in Cigs a vita tutti i 10 mila lavoratori e l’Italia senza acciaio. Gratuitamente.
I cinque anni dal “piano Di Maio”
Scomparsi i Riva e Lucchini, l’Ilva in disfacimento. Hanno fallito tutti: dai tedeschi ai russi, dagli algerini agli indiani. Una vera maledizione. Davvero l’Italia non è un paese d’acciaio?
Sull’ex Ilva, come su altre aziende strategiche italiane, ora incombe la tentazione della nazionalizzazione. Ma non è affatto detto che sia la soluzione migliore.
Per governare un impianto di queste dimensioni serve un socio industriale forte che creda fino in fondo nel rilancio dell’acciaieria. Il problema del bilancio di Taranto è un problema di competitività della produzione di tutto l’acciaio europeo nel confronto con i cinesi e con gli indiani.
Nei suoi 55 anni di storia, comprensiva del siderurgico di Taranto, solo per 17 anni Ilva è stata privata. Le privatizzazioni del centrosinistra degli anni 90 dimenticarono le regole di responsabilità sociale e di partecipazione dei lavoratori.
Ma i nostalgici non ricordano come la siderurgia pubblica lasciò il campo, regalandoci ripiegamento industriale e occupazionale, disastri ambientali e spesso corruzione.
Adesso il governo dovrebbe ammettere di aver continuato a sbagliare tutto (dopo il folle accordo sottoscritto da Di Maio). E aprire alla vendita a una cordata interessata davvero a investire per il rilancio del ciclo integrato a caldo e l’avanzamento della decarbonizzazione.
Il governo Draghi, quando lo Stato sarebbe subentrato a Mittal
Sotto il governo di Mario Draghi, con l’allora ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti annunciava che tutto si sarebbe risolto a maggio 2022, quando lo stato sarebbe subentrato a Mittal.

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Poi il Mef puntò i piedi, contrario a impegnarvi pluriennalmente miliardi di finanza pubblica, e la scadenza passò a giugno 2024.
Nel febbraio del 2023, il governo Meloni varò un discutibilissimo decreto ad aziendam che applicava alla sola ex Ilva la possibilità per Invitalia di chiedere il commissariamento per inadeguatezza anche della società di gestione dell’impianto. Cioè l’ennesimo annuncio di addio a Mittal. Ognuno di questi passaggi ha rafforzato il disimpegno degli indiani.
E non è certo la successiva avocazione del dossier dalle mani del Mimit a palazzo Chigi a quelle del ministro Fitto, che poteva far cambiare idea a Mittal. A furia di dilazioni e contraddizioni, la situazione è solo peggiorata.
La posizione del Mef – sempre Giorgetti, ma in altra veste rispetto al 2021 – non è cambiata: non possiamo accollarci Taranto, dopo i 680 milioni pubblici dati mesi fa come finanziamento soci in vista di un futuro aumento di capitale.
I sindacati, anche quelli che alla continuità industriale privata hanno creduto, oggi sono compatti nel chiedere che lo stato si prenda tutto. Anno dopo anno, gli stessi industriali siderurgici italiani hanno finito per non credere più troppo nella necessità-possibilità di difendere con le unghie l’acciaio da altoforno con ciclo integrale a caldo.
Il presidente di Federacciai Antonio Gozzi sull’ex Ilva chiede da sempre chiarezza, ma sottolinea con fierezza che oramai l’Italia si avvia a essere leader mondiale dell’acciaio più ecocompatibile, visto che oltre l’80 per cento della nostra residua produzione nazionale si realizza da forno elettrico.
Un bel capolavoro, l’esito di questi 12 anni di follie pubbliche dilatorie. Mentre la siderurgia mondiale macinava fior di profitti nel rimbalzone post Covid, siamo riusciti a perdere quote di produzione sui mercati, a importare più acciaio per le esigenze della nostra manifattura, e a far nutrire profonda sfiducia in tutte le categorie sulla capacità di difendere quella che era una delle maggiori acciaierie d’Europa.
Il caso
Un rapido resoconto negli anni. Dopo essere finita al centro di inchieste giudiziarie nel 2012, l’acciaieria pugliese realizzata nel 1960 è stata commissariata. Successivamente è stata venduta ad ArcelorMittal, multinazionale del segmento siderurgico che fa capo alla famiglia indiana Mittal.
Ne è nata la newco Acciaierie d’Italia, partecipata al 68% da ArcelorMittal e al 32% dallo Stato attraverso Invitalia. Il socio di maggioranza, però, non vuole più investire soldi.
L’azienda è a corto di liquidità e si calcola che abbia accumulato debiti per 1,5 miliardi di euro. L’ex Ilva sta lavorando ai minimi storici, con conseguenze sulla tenuta occupazionale, sul mantenimento dell’impianto e sulla capacità dell’Italia di competere ancora in un settore strategico come quello siderurgico.
L’ex Ilva dà lavoro a 10.500 operai e a decine di aziende dell’indotto. Tutte persone e imprese colpite dal fermo degli ultimi mesi.
Dal 2023 il governo lavora per individuare un nuovo partner industriale che possa subentrare al colosso presieduto da Lakshmi Mittal. Il nome più gettonato, in questo senso, è quello del gruppo siderurgico cremonese Arvedi, ma non è escluso che possano essere presi in considerazione anche altri produttori di acciaio del Nord Italia.
Per i sindacati, che reputano “gravissima” l’indisponibilità di Mittal, l’auspicio è che l’incontro di giovedì porti a «una soluzione che metta in sicurezza tutti i lavoratori, compreso quelli dell’indotto, e garantisca il controllo pubblico, la salvaguardia occupazionale, la salute e la sicurezza, il risanamento ambientale e il rilancio industriale».
Tutte le tappe di Ilva, dalla sua nascita a oggi
Si tratta di una vicenda che si dipana, ormai, da più di un secolo, visto che la prima società denominata Ilva fu fondata a Genova nel lontano 1905.
Lungo un periodo di quasi 120 anni, l’Ilva e le società che da essa sono germogliate, o che con essa si sono intrecciate, hanno visto più volte cambi di denominazione, di proprietà, e di insediamenti produttivi. Ma ciò, a quanto pare, non bastava. Perché dopo un secolo di storia ricco di accadimenti e di svolte, negli ultimi dieci anni è successo di tutto e di più.
Come si è detto, la Società anonima Ilva, che prese il suo nome da quello latino dell’isola d’Elba – isola dotata, un tempo, di miniere di ferro – fu fondata a Genova nel 1905.
Dopo vari avvenimenti, negli anni Trenta entrò a far parte dell’Istituto per la ricostruzione industriale (in sigla, Iri), fondato dal regime fascista per reagire alle conseguenze della crisi economica mondiale del 1929.
Dopo la Seconda Guerra mondiale, sempre nell’ambito dell’Iri, prese vita, sotto la guida di Oscar Sinigaglia, il cosiddetto Piano Sinigaglia.
L’Ilva era allora proprietà della Finsider, la finanziaria siderurgica dell’Iri, e la siderurgia italiana fu riorganizzata puntando sull’integrazione di tre grandi centri siderurgici attivi lungo le coste tirreniche: Cornigliano (a Genova), Piombino (in provincia di Livorno) e Bagnoli (a Napoli).

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Nel 1949, inizia poi, a Taranto, la costruzione del cosiddetto “quarto centro siderurgico” a ciclo integrale. Lo stabilimento pugliese entrerà in funzione nel 1965. Intanto, il nome Ilva è scomparso dal panorama industriale.
Dalla metà degli anni Sessanta, si parla ormai solo di Italsider. Denominazioni a parte, quello che è certo è che, dal secondo dopoguerra agli anni del boom, il contributo che la produzione pubblica di acciaio ha dato prima alla ricostruzione postbellica, e poi allo sviluppo industriale del nostro Paese, è stato decisivo.
Ma ecco che, sul finire del secolo scorso, si arriva all’epoca delle grandi privatizzazioni. Dopo la chiusura dello stabilimento di Bagnoli, Piombino viene acquisito dal gruppo Lucchini, mentre Taranto, Cornigliano e Novi Ligure (in provincia di Alessandria) entrano a far parte del gruppo Riva. L’Italsider non c’è più e torna in voga l’antico nome dell’Ilva.
I guai cominciano quando esplode la questione ambientale. Il 26 luglio del 2012 la Procura della Repubblica di Taranto lancia la sua offensiva giudiziaria che porta a 8 arresti e, soprattutto, al sequestro dell’impianto. Ed è da qui, da questa data infausta, che inizia l’attuale storia dell’Ilva.
Una storia in cui i protagonisti si moltiplicano e, attorno al più grande stabilimento siderurgico d’Europa, prende avvio una sorta di guerra di tutti contro tutti. Ambientalisti, Magistratura, poteri locali (Comune di Taranto e Regione Puglia), imprese dell’indotto, sindacati, partiti, Governo nazionale.
I vertici sono azzerati, l’impianto fermo. Nel giugno 2013, il neo-nato Governo Letta sottopone l’Ilva al Commissariamento straordinario. Nel gennaio 2015, sotto il Governo Renzi, l’Ilva è ammessa alla procedura di Amministrazione straordinaria.

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Nel giugno 2017, sotto il Governo Gentiloni, all’esito di una gara internazionale indetta dal Ministero dello Sviluppo economico (Mise), retto allora da Carlo Calenda, l’Ilva viene aggiudicata a ArcelorMittal, gruppo indiano-lussemburghese che è anche il più grande produttore di acciaio a livello mondiale.
Si poteva sperare che, da quel momento, potesse iniziare una nuova storia positiva per quella che, a questo punto, è ormai diventata, sulle pagine dei giornali, la ex Ilva. E invece no. Perché l’ala grillina del primo Governo Conte, formatosi dopo le elezioni del 2018, prende di mira, con argomentazioni ambientaliste, lo stabilimento di Taranto.
Per i Cinque Stelle l’importante non è proseguire nell’opera di ambientalizzazione del centro siderurgico, già avviata, per impulso di Calenda, sotto il Governo Gentiloni. L’importante è esibire la propria intransigenza ambientalista.
Il casus belli è costituito dalla questione del cosiddetto “scudo penale”, ovvero da norme volte a porre al riparo la nuova dirigenza ArcelorMittal da responsabilità penali relative a una situazione ambientale determinatasi prima dell’arrivo della nuova società.

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Secondo ArcelorMittal, non difendendo tali norme, il Governo italiano viene meno agli impegni presi. E così qui qualcosa si rompe, forse irreparabilmente, fra il quartier generale di ArcelorMittal e il nostro Paese.
È iniziato così un periodo particolarmente confuso, in cui ArcelorMittal manifesta l’intenzione di abbandonare l’impresa italiana. Ma ecco che, verso la fine del secondo Governo Conte, si profila un cambio di scenario.
Nel dicembre 2020, la stessa ArcelorMittal annuncia di aver firmato con Invitalia, ovvero con l’Agenzia nazionale italiana per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, di proprietà del Ministero dell’Economia, un accordo di investimento per formare una partnership pubblico-privata.
Il 15 aprile 2021, quando ormai è già attivo il Governo guidato da Mario Draghi, nasce ufficialmente Acciaierie d’Italia.
L’accordo prevede che il 62% del capitale della nuova società sia di ArcelorMittal, mentre il restante 38% sia di Invitalia.
I diritti di voto nel Consiglio di amministrazione, peraltro, saranno suddivisi al 50%, mentre ArcelorMittal avrà il potere di nominare l’Amministratore delegato e Invitalia quello di nominare il Presidente.
La carica di Amministratore delegato allora detenuta da Lucia Morselli, che fu chiamata nel 2019 ad assumere lo stesso incarico per ArcelorMittal Italy.
Dal luglio 2021, è invece Presidente di Acciaierie d’Italia Franco Bernabè. Un manager stimatissimo, la cui nomina risalirebbe a una candidatura formulata personalmente da Mario Draghi, allora Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ed eccoci arrivati alla fase ancora più confusa in cui i sindacati percepiscono con allarme una situazione di stallo in cui non la difficoltà è stata capire le vere intenzioni strategiche di ArcelorMittal.
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Allarme relativo a una situazione in cui, innanzitutto, non si è verificata la promessa crescita produttiva, la situazione è stata caratterizzata da zero investimenti, l’Azienda è ricorsa in misura massiccia alla Cassa integrazione, facendo calare i redditi dei lavoratori, e in cui perfino la manutenzione ordinaria sembrava collocarsi al di sotto di una soglia accettabile.
Quell’allarme, infine, da cui è nato lo sciopero di 24 ore, nello stabilimento di Taranto.
Sugli organi di informazione, infatti, si parlava di un contrasto tra Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, e Fitto, responsabile, fra le altre cose, per l’attuazione del Pnrr. Quando sembrava che, mentre Urso sarebbe stato favorevole all’acquisizione del controllo di AdI da parte di Invitalia, Fitto sarebbe stato, invece, favorevole a lasciare il controllo di AdI ad ArcelorMittal.
Inoltre, proprio a Fitto risalirebbe la decisione di prendere le risorse volte a finanziare l’introduzione a Taranto della tecnologia del forno elettrico, maggiormente ecocompatibile dell’altoforno, non più dal Pnrr, come previsto, ma dai Fondi di coesione dell’Unione europea. E ciò a causa del fatto che l’utilizzo dei fondi del Pnrr è legato a date non valicabili, mentre l’utilizzo dei Fondi di coesione può essere effettuato anche in tempi più lunghi.
Al termine della situazione di eterna incertezza, si è arrivati alla decisione comune di garantire la sopravvivenza dell’azienda per mettere a disposizione risorse. Nel momento in cui lo stesso Bernabé sarebbe pronto a fare un passo indietro e a lasciare la Presidenza di Acciaierie d’Italia.