Secondo fonti di stampa Israele starebbe valutando un possibile attacco agli impianti nucleari iraniani. Sui mercati asiatici infatti, il Brent guadagna oltre l’1,6% toccando i 66,45 dollari al barile mentre il Wti va oltre toccando un rialzo dell’1,74% attestandosi a quota 63,11 dollari. Recentemente i rappresentanti della delegazione statunitense impegnati nei colloqui avevano parlato di un accordo vicino ma la Guida suprema iraniana, l’Ayatollah Ali Khamenei, ha smentito l’ipotesi di un’intesa. Al centro dei colloqui c’è il programma iraniano di arricchimento dell’uranio giudicato da Teheran come “assolutamente non negoziabile” mentre Washington ne aveva chiesto l’interruzione.
Il timore principale, oltre ad un possibile effetto domino, è che un attacco all’Iran, terzo produttore tra i membri OPEC, potrebbe destabilizzare i rifornimenti della materia prima in tutta la regione. Sotto controllo, in questo momento, lo stretto di Hormuz, zona di grande traffico, attraverso cui Arabia Saudita, Kuwait, Iraq ed Emirati Arabi Uniti esportano petrolio greggio e carburante. Da ricordare che gli Stati Uniti sono, con la Cina, tra i maggiori consumatori al mondo di petrolio.
A calmierare i rialzi, però, sono intervenuti i dati macro USA relativi alle scorte settimanali di greggio che, secondo l’API, l’American Petroleum Institute hanno visto un aumento di circa 2,5 milioni di barili per la settimana terminata il 16 maggio contro previsioni che parlavano di un calo di 1,9 milioni di barili.
Recentemente l’OPEC ha confermato la sua intenzione di ridurre la produzione di petrolio. Mantenendo le sue previsioni di crescita della domanda sia sul 2025 che sul 2026 nonostante le tante incertezze che si stanno delineando all’orizzonte. I numeri dell’Organizzazione che riunisce i maggiori esportatori di petrolio, Russia inclusa, parla di una domanda pari a 1,3 milioni di barili al giorno (mb/d), nel 2025.
Per il 2026 la previsione di crescita della domanda parla di 1,3 mb/d. Sul fronte dell’offerta l’Opec ha rivisto al ribasso l’aumento della produzione non-Opec per quest’anno che scende dagli 0,9 mb/d della stima precedente agli 0,8 mb/d su una produzione stimata a 54 mb/d.
Guardando agli effetti sui mercati oltre al rialzo delle quotazioni del petrolio si segnalano vendite su dollaro e Treasuries con ulteriori rialzi sui rendimenti già considerati a livelli critici. Sullo sfondo di tale incremento anche l’aumento del debito e del deficit USA oltre al disegno di legge in discussione al Congresso sui tagli fiscali che per molti deputati non troverebbe copertura finanziaria e che aumenterebbe il già ampio debito pubblico nazionale. Secondo quanto reso noto dalla Casa Bianca le entrate mancanti dovrebbero essere in parte compensate da tagli alla spesa.
Intanto il rendimento del benchmark USA, sul taglio decennale, è aumentato di 0,2 punti base, al 4,477% mentre la scadenza a 30 anni ha toccato il 4,965% di rendimento con un aumento del 2,3%, un dato che risulta comunque in calo rispetto al record di inizio settimana quando aveva toccato il 5,037% nelle contrattazioni intraday.
A peggiorare la situazione anche le previsioni di Goldman Sachs e JPMorgan che parlano di un possibile ulteriore rialzo dei rendimenti. Interessante notare l’inversione della correlazione che vede il dollaro favorito dall’aumento dei rendimenti dei titoli del Tesoro a causa delle caotiche politiche commerciali del presidente Trump che, secondo la maggior parte degli analisti, avrebbero scosso la fiducia degli investitori nel futuro prossimo dell’economia a stelle e strisce complice anche il recente downgrade di Moody’s sul debito USA che è sceso da tripla A ad Aa1. Il cambio di rating, però, è interpretabile non tanto come un alert economico quanto politico in vista del prossimo dibattito sulla legge di bilancio.
Al centro dell’attenzione del Congresso resta il deficit di 2mila miliardi di dollari l’anno e debiti per 36mila miliardi, oltre il 120% del Pil. Numeri in forte crescita se si pensa che nel 2015 si parlava di 12,6mila miliardi. Un peso notevole a causa degli interessi che copre il 14% dell’intera spesa, superata solo dai costi dei servizi sociali (22%). Di fronte ad un quadro simile giunge come una tegola il “Big beautiful bill” a firma trumpiana, ovvero il progetto di legge che punta a prorogare i tagli fiscali introdotti sempre da Trump nel suo primo mandato (Tax Cuts and Jobs Act) e che vedono la scadenza proprio in questo 2025.